L'8 marzo l'Irlanda voterà in un referendum per ridefinire il lavoro di cura nella costituzione. Un'occasione per tornare a discutere di cosa vogliono le donne, nel complicato spettro che da secoli le tiene in scacco tra destini riproduttivi e misconoscimenti sociali
"Lo stato riconosce che, passando la sua vita in casa, la donna dà alla comunità un sostegno senza il quale il bene comune non potrebbe mai essere raggiunto".
Insieme ad altre dello stesso tenore, quella riportata è una delle frasi della Costituzione del 1937 su cui la cittadinanza irlandese sarà chiamata a esprimersi in un referendum il prossimo 8 marzo 2024.
Le femministe irlandesi hanno chiesto di modificare questo e altri articoli, in modo sì da valorizzare mansioni come "attenzione e accudimento" ma non per forza legandole a figure femminili, né alla famiglia fondata sul matrimonio (ma su "unioni di lunga durata", si legge nella proposta di modifica). Vedremo cosa accadrà venerdì, i pronostici danno la vittoria del "sì" con l’inusitata alleanza di tutto l’arco parlamentare.
Certo è che la "questione femminile", come avrebbero detto un secolo fa, si conferma ancora una volta nella sua complessità. È vero che "la donna" dà un sostegno al raggiungimento del "bene comune"? Ed è vero che questo avviene – come recita la costituzione irlandese – grazie agli "impegni casalinghi", quelli che portano le donne a passare la loro "vita in casa"? Rispondere in modo netto a queste domande non è facile. E il tema della cura rischia di essere una lama a doppio taglio.
Certamente non è accettabile che il ruolo femminile sia ridimensionato e ridotto esclusivamente agli "impegni casalinghi". Però di sicuro vogliamo anche che sia riconosciuto il ruolo fondamentale delle donne nel lavoro di cura e di riproduzione sociale. E vogliamo avere sostegno, protezione e tutela per tutte quelle donne che svolgono queste mansioni in quantità eccessiva; per quelle che non riescono a tornare al lavoro dopo la nascita di figli e figlie, che si fanno carico della cura delle persone anziane della propria famiglia e spesso di quella del marito.
E allora, quando nella costituzione irlandese si auspica che "le madri in caso di necessità economiche non debbano essere obbligate a lavorare", non possiamo che interrogarci su quanto stiamo facendo per proteggere dalla povertà e dal ricatto del bisogno le madri giovani, single, migranti.
La formulazione offerta dalla Costituzione irlandese, colma di stereotipi naturalizzanti e rappresentazioni essenzialiste, va di certo superata. Ma senza correre il rischio di dimenticare quanto sia elevato il numero di donne, soprattutto migranti, fra le persone che vivono in condizioni di sfruttamento, indebitamento, ricatto (economico, fisico, sessuale) per via del fatto di non poter contare sul sostegno dello stato e della società tutta.
Quanto sarebbe importante avere un pieno riconoscimento, anche economico, per quel lavoro che avviene invece nella totale incomprensione del suo valore, come se alle donne spettasse farlo perché "tanto non sanno fare altro", perché "tanto è nella loro natura", "tanto per loro sarebbe lo stesso". Dall’assenza di riconoscimento sociale, alla violenza simbolica e poi a quella fisica, il passo è breve.
Ma altrettanta violenza esiste nell’assegnare alle donne, specialmente quelle appartenenti a gruppi marginalizzati, dei carichi di cura indesiderati, sia nella loro realtà familiare che nel lavoro, rendendoli l’unica opzione praticabile, l’unica alternativa per essere accettate, legittimate, comprese, cercate, impiegate, pagate. In altre parole: la cura come obbligo, l’amore come dovere, la maternità come destino.
Le conseguenze di tutto questo nel mondo del lavoro sono enormi: le donne sono maggiormente impiegate in quei settori in cui i titoli di studio contano poco, in cui si guadagna poco, ci sono poche prospettive di miglioramento, contratti brevi e poco sicuri.
Una situazione pessima, ancor più per le migranti: le italiane con un lavoro dequalificato sono il 26%, le straniere il 42%. A svolgere un lavoro part-time involontario è il 16% delle donne italiane e il 31% di quelle migranti.
Le donne italiane con un lavoro non-standard, temporaneo e precario, sono il 27%, percentuale che, secondo i dati statistici del Dossier statistico immigrazione 2022 del Centro studi e ricerche Idos, sale addirittura al 42% fra le migranti.
Le donne migranti in Italia sono attive in due settori lavorativi, le italiane in venti. Per tutte, l’impiego è largamente in lavori connessi all’accudimento, alla pulizia, alla preparazione dei pasti, al servizio della clientela, allo stare con bambini e bambine, persone anziane, malate.
Molti di questi sono lavori per cui l’unico capitale che conta non è certo quello culturale (lo studio) ma piuttosto quello "corporeo" o addirittura "sessuale". Si tratta di quel lavoro di riproduzione di cui si parlava prima, ma che, invece di essere svolto gratuitamente nel privato, è impiegato in una logica di mercato che gli assegna un prezzo da trattare, quasi sempre al ribasso.
In diverse parti del mondo, i movimenti femministi hanno criticato aspramente queste disuguaglianze, contro le quali sindacati e organizzazioni di donne lavoratrici hanno dato battaglia: per i diritti sul posto di lavoro, per il diritto a non avere figli, per il diritto a divorziare, ecc.
È dal 1921 che, su iniziativa della politica tedesca Clara Zektin nella seconda Conferenza internazionale delle donne comuniste, è stato istituito l'8 marzo come data per festeggiare i progressi compiuti verso questi obiettivi e rinsaldare la lotta per quello che ancora rimane da fare.
Dal 2017 in poi, la rete femminista mondiale proclama per l’8 marzo uno Sciopero globale dal lavoro di riproduzione, pagato e non pagato, per far davvero capire quanto valga. Uno sciopero globale e transfemminista.
E allora diciamolo che è importante, anzi, fondamentale, che vengano riconosciuti i diritti delle donne e di tutte le persone che svolgono quel lavoro di cura e riproduzione senza il quale il mondo si fermerebbe. E che non c’è giorno migliore per farlo che proprio l’8 marzo.