Storie

Trento, anni Sessanta, facoltà di Sociologia. Un luogo simbolo del “lungo ’68” italiano divenuto oggetto di innumerevoli narrazioni. Eppure c’è un’altra storia possibile di quel periodo, una storia rimasta al margine. La racconta Elisa Bellè, autrice del libro L'altra rivoluzione (Rosenberg&Sellier, 2021)

L'altra rivoluzione,
femministe a Trento

11 min lettura
Foto: Rosenber&Sellier

In pochi ricordano che Trento è stata tra le prime città, insieme a Milano e Roma, in cui ha preso avvio il femminismo di seconda ondata, nonché uno degli epicentri dello sviluppo scientifico degli studi di genere. Una ricerca sociologica basata su inedite fonti d’archivio e interviste alle protagoniste restituisce questa ricca vicenda alla memoria pubblica.

All’inizio degli anni Sessanta tra le strade della conservatrice e periferica Trento soffia un vento di cambiamento. Nasce infatti nel 1962 l’Istituto Universitario Superiore di Scienze Sociali, principalmente per volontà dell’allora Presidente della Giunta Provinciale, il democristiano progressista Bruno Kessler. Al termine di un tormentato percorso di riconoscimento parlamentare, nel 1966 l’Istituto diventerà la prima facoltà di Sociologia in Italia. Un progetto senza dubbio visionario per l’epoca e il contesto, pensato per sprovincializzare il Trentino arretrato e povero da un lato e, dall’altro, per sfornare una generazione di giovani tecnocrati, capaci di governare i nuovi apparati dello stato e i turbinosi processi di modernizzazione dell’Italia del boom. Si tratta peraltro del primo percorso di studi a cui si può accedere anche con un diploma di istituto tecnico. Una scelta politica ben ponderata, che anticipa successivi processi di democratizzazione dell’accesso al sapere e che apre la prima, storica breccia nella “fortezza classista del sistema universitario italiano”.[1]

Giunte da tanti e diversi luoghi d’Italia, le matricole di questo inedito esperimento formativo sono poco rappresentative della media del corpo studentesco italiano, allora ancora nettamente segregato, sia in termini di classe, sia di genere. A Trento si arriva con spirito di sperimentazione, giacché il titolo di laurea è in attesa di riconoscimento legale. La curiosità sociologica, in molti casi, è già maturata durante gli anni delle superiori e vi è un intenso desiderio di uscire da binari formativi ed esistenziali già previsti. In molti casi si arriva già parzialmente engagé, mossi da una spinta di cambiamento maturata in percorsi di socializzazione precedenti: dalle reti del cattolicesimo progressista, a quelle dell’associazionismo antifascista post bellico, passando per una minoranza di studenti già politicizzata dentro le formazioni della sinistra.

Trento diventa così l’imprevedibile approdo di una “comunità di autoemarginati e competenti”, come la descriverà qualche anno più tardi una delle protagoniste del movimento, Marianella Sclavi, evidenziando due tratti essenziali del ’68 trentino: il forte carattere intellettuale, nutrito dalla comune passione per una sociologia critica e dalla distanza verso la società dei padri.[2]

L’avvio è da subito travolgente: la prima occupazione dell’Istituto data 24 gennaio 1966 e dura 18 giorni. Si protesta contro il declassamento del titolo di studio da laurea in Sociologia a laurea in Scienze politiche e sociali a indirizzo sociologico, votato dal parlamento nel maggio 1965. Il tentativo è di far rientrare il progetto di Kessler nell’orbita della più paludata Scienza politica (già istituzionalizzata sotto il fascismo): sulla Sociologia pesa infatti uno storico pregiudizio intellettuale (una pseudoscienza fatta da pseudoconcetti, ebbe a definirla Croce). Si occupa dunque per ragioni corporative, certo, ma anche per difendere un progetto intellettuale, in cui in filigrana si scorgono già le elaborazioni politiche del ‘68. Le/gli studenti difendono la possibilità di formarsi in maniera critica rispetto ai processi di modernizzazione, riflettendo sulla figura del/la sociologo/a “per rifiutarne la neutralità [...], nella misura in cui il sociologo opera su una realtà che non può che essere politica, il sociologo è necessariamente un ‘politico’”.[3]

Foto: Corteo femminista a Rovereto, 1974 circa. Credit: Biblioteca civica di Rovereto, Archivio donne Rovereto, Fondo Sandra Dorigotti

Giunte da tanti e diversi luoghi, con alle spalle estrazioni sociali varie, le studentesse della neonata facoltà di Sociologia hanno in comune una nuova, fondamentale esperienza: la libertà. Entro il rigido sistema di controllo sociale dell’Italia di allora, la possibilità di trasferirsi in un’altra città, studiare, essere economicamente autonome grazie al sistema del presalario (introdotto nel 1963 con la legge 80 sull'assegno di studio universitario) è un’esperienza di vita nuova ed entusiasmante.

Questa scoperta vorticosa di sé e del mondo si compone di molteplici dimensioni: lo studio, i “lavoretti” per mantenersi (per chi è di estrazione proletaria o piccolo-borghese), gli intensi rapporti all’università. Dalle interviste è emersa poi una questione particolarmente importante, in questa prima fase: il confronto tra pari sulla condizione femminile e sulla sessualità, che spesso si intreccia con il percorso di formazione intellettuale

Con tante che diventeranno poi parte del femminismo eravamo tutte in studentato insieme. Arrivò una torinese che disse 'Sono andata a casa e ho scoperto che mia sorella più piccola non sa cos’è l’utero'. Allora aveva comprato questo libro – non c’era quasi niente sul sesso – che si chiamava Il matrimonio moderno. Era un olandese che era molto esplicito e abbiamo cominciato a fare delle letture collettive nelle camere delle suore! […] Non so, eravamo una decina, appollaiate sui letti e facevamo queste letture collettive di autoformazione. (Intervista raccolta di Elisa Bellè a una ex studentessa di Sociologia e attivista femminista, ndr).

Per comprendere la portata di questa prima esperienza di confronto è necessario immedesimarsi nel contesto: siamo nell’Italia del matrimonio riparatore, del delitto d’onore e dell’autorità maritale; la violenza sessuale è un reato contro la pubblica morale e il divorzio non c’è ancora; l’aborto clandestino miete le sue vittime e la contraccezione è penalmente perseguibile ai sensi del codice Rocco, annoverata tra i "delitti contro la sanità e la integrità della stirpe".

L’altra grande accelerazione libertaria è la partecipazione al movimento studentesco. In linea con la letteratura, che descrive il Sessantotto come esperienza fondativa per l’identità e la traiettoria biografica, anche le intervistate confermano l’importanza di quella esperienza, tanto in termini politici, quanto biografici e affettivi.

Eppure, nonostante gli afflati antiautoritari e la voglia di cambiare “tutto e subito”, qualcosa continua a permanere, nel segno della ripetizione. L’onda di ribellione alla società dei padri (e delle madri), a ben guardare conserva tratti del vecchio mondo, riproponendo vincoli e gerarchie noti. Un primo elemento risiede nella riproduzione delle classiche dicotomie di genere pubblico/privato e produttivo/riproduttivo, con i ragazzi al centro della ribalta e le ragazze alle prese con il lavoro ancillare e di retroscena. Questa divisione, tanto pratica quanto simbolica, comporta l’esclusione da diversi momenti di azione e, soprattutto, la marginalizzazione della componente femminile dall’arena principale del confronto, vale a dire l’assemblea.

In questo nuovo spazio della politica, un po’polis e un po’arena, la presa di parola è una questione quasi sempre di e per uomini:

Le donne niente, non si muovevano. Che strano, mi dicevo io, eppure le vedevo in gamba! C’era la ***, che era l’unica mosca bianca, perché lei era arrivata da un collegio: le borghesi sapevano parlare, avevano letto Marx, Engels e tutti questi qua. E comunque quando iniziava a parlare tutti urlavano "Finirai come Giovanna D’Arco, finirai sul rogo!" e la fermavano. Porca miseria. Io ho detto "No, questa cosa non funziona". (Intervista di Elisa Bellè a una ex studentessa di Sociologia e attivista femminista, ndr).

La frustrante distanza fra proclama libertario e pratiche di movimento innesca reazioni di delusione, ma anche di presa di coscienza, conducendo queste giovani donne sulla soglia storica di un’altra rivoluzione.

Foto: quotidiano locale “Alto Adige”, 27 gennaio 1966. Significativa la rappresentazione, anche iconografica, che appiattisce le ragazze in ruoli stereotipati.

 

Nel frattempo, nel 1969, si costituisce un gruppo di studio composto da quattro ragazze, Gabriella Ferri, Elena Medi, Silvia Motta e Luisa Abbà, e da un ragazzo, Piergiorgio Lazzaretto. Il gruppo lavora insieme a un una tesi di laurea incentrata sull’analisi dello sfruttamento e dell’oppressione delle donne. La tesi verrà discussa nel 1971 e pubblicata l’anno successivo con il titolo La coscienza di sfruttata, diventando uno dei testi di riferimento di quella prima fase del femminismo italiano.

Gli incontri ben presto si allargano, trasformandosi in un appuntamento settimanale che coinvolge un numero sempre maggiore di studentesse, ma anche ragazze del luogo estranee all’ambito universitario. Piergiorgio, unico uomo, decide di abbandonare gli incontri, in maniera non conflittuale, confermando un aspetto interessante ma poco approfondito degli esordi del femminismo italiano, vale a dire il carattere misto di alcune esperienze.

Il gruppo comincia a praticare, fra i primi in Italia, il metodo allora chiamato all’americana con il termine di 'presa di coscienza' (consciousness raising), giacché la parola autocoscienza entrerà in uso solo successivamente. Un percorso del tutto sperimentale, che le protagoniste ricordano ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, come un’esperienza fondamentale di cambiamento, individuale e collettivo:

E poi c'era questa spinta che si voleva esserci in un'altra maniera nel mondo, da come ci era stato insegnato e da come avevano preteso. Solo la funzione della parola, il fatto di parlare e dare voce a quelle cose di cui prima non si diceva... questa qui è stata una funzione fondamentale. Che poi voleva dire rinforzarsi nei propri desideri. (Intervista di Elisa Belle a una ex studentessa di Sociologia e attivista femminista, ndr).

Il gruppo si dà un nome, il Cerchio spezzato, elaborando anche un proprio simbolo: un pugno che spezza un cerchio/simbolo del femminile.

Un ulteriore, decisivo passaggio, è l’elaborazione del manifesto politico “Non c’è rivoluzione senza la liberazione della donna”. Redatto e distribuito nel 1970, il testo tiene insieme la critica al capitalismo di matrice marxista, maturata all’interno del movimento studentesco, con l’analisi specifica dell’oppressione delle donne. Un’oppressione trasversale ai rapporti di classe e ad essi intrecciata, dunque difficile da cogliere con gli strumenti analitici tradizionali della sinistra. Anche per questo motivo, all’interno del documento si fa riferimento alla categoria di casta e all’esperienza del black power, che divampa in quegli anni negli Stati Uniti. In questa analisi del rapporto dialettico fra sistemi di oppressione si intravedono interessanti intuizioni di decentramento del privilegio bianco che il femminismo italiano smarrirà negli anni Settanta, per recuperare recentemente con la critica postcoloniale e il conetto di intersezionalità.

A partire da questa prima esperienza politica il femminismo si espande e cresce, in linea con la dinamica (inter)nazionale di affermazione del movimento. Si moltiplicano i gruppi, grandi e piccoli, si pratica l’autocoscienza, si aprono centri autogestiti per la salute delle donne, si sviluppa una rete di sostegno agli aborti clandestini per sfuggire al ricatto della clandestinità attraverso l’auto-organizzazione.

Credit: Archivio Movimento studentesco, fondo Elena Medi Trento, Fondazione Museo storico del Trentino.

 

E torna, ancora una volta, la facoltà di Sociologia, che diventa in questa fase un luogo chiave nel processo di transizione dal movimento agli studi di genere:

Io ho lavorato un periodo a Milano, prima di laurearmi, sarà stato il ‘72, o ‘71. Stando a Milano avevo partecipato poi alla nascita dei quaderni del Grif [Gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile]. Era il gruppo di Laura Balbo, Lorenza Zanoni: la militanza, già intellettuale, se vuoi. Confluivano tanti femminismi: quello, diciamo, radicale fuori dalle situazioni e fuori dai gruppi, quello militante, quello nell’accademia in cui incominciavano i lavori, metti, su Inchiesta, con Laura Balbo, con altre donne. [...] Se vuoi c’era già il nucleo di un passaggio dal femminismo agli studi di genere. (Silvia Gherardi, docente presso la Facoltà di Sociologia).

Un passaggio che a Trento è particolarmente rilevante, data la presenza di tante studentesse, neolaureate e giovani docenti vicine o interne al movimento femminista:

Mi sono laureata con la Saraceno e lì […] ho in qualche modo riunito il discorso politico e quello femminista, perché ho fatto una tesi di laurea sulla famiglia operaia: “Divisione dei compiti all’interno della famiglia operaia” […]. Nel ‘76, sempre con la Saraceno, una ricerca all’interno delle scuole dell’infanzia, allora si parlava di antiautoritarismo […]. Per questo dico: per me è un filo, che era sottile, e poi si è rafforzato via via. (Francesca Sartori, docente presso la Facoltà di Sociologia).

Prendono allora avvio anche le prime ricerche in ottica femminista e di genere, focalizzate prevalentemente sui temi allora centrali per la riflessione scientifica e per la fondazione di un dibattito sulla condizione femminile: rapporto tra sfera produttiva e riproduttiva, mercato del lavoro, servizi all’infanzia.

Prende avvio, in quello stesso periodo, un altro importante percorso di ibridazione tra esperienza politica femminista, sindacato e università: i corsi monografici delle donne, organizzati dentro la cornice delle 150 ore per il diritto allo studio. Introdotte nel contratto nazionale dei metalmeccanici del 1973, poi via via estese ad altri contratti, le 150 ore rappresentano un salto dalla tutela dei diritti dei singoli lavoratori-studenti alla rivendicazione collettiva del diritto all’istruzione e alla cultura.

Foto: L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo di Elisa Bellè (Rosenber&Sellier, Torino, 2021, pp. 228), prefazione di Silvia Gherardi 

 

 

In questa fase si sviluppa l’idea dei corsi per sole donne, progettati in collaborazione tra docenti della Facoltà (Silvia Gherardi, Chiara Saraceno) e sindacati (i Coordinamenti unitari delle donne) e gestiti da attiviste femministe, spesso a loro volta attive nel sindacato. I corsi diventano uno spazio di sperimentazione e ibridazione di temi, metodi, contenuti:

Noi abbiamo avuto anni d’oro: Sociologia, con questo gruppo di docenti che avevano uno sguardo… Silvia Gherardi, Chiara Saraceno… Era un partecipare come docenti, ma anche come donne. […] Era un’esperienza emotiva indescrivibile: molto contenuta perché dentro ad un programma preciso. Si parlava, ognuna diceva le proprie cose, per cui tu sentivi che valevi, era un darsi valore reciproco. Un’espressione di potenza del mondo femminile, di potenza. (Franca Gamberoni, responsabile gestione corsi)

Alcune radici didattiche dell’esperienza affondano nella critica ai legami tra sapere e autorità avanzata dal movimento studentesco: si rifiuta la gerarchia tra cultura “alta e bassa”, esperti e non esperti, docenti e discenti. In questa sperimentalità didattica si legge però anche l’avvio della riflessione femminista in tema di epistemologia, che avrà un impatto scientifico importante poiché saprà mettere in questione l’idea della conoscenza come esito disincarnato, astratto, del dualismo soggetto/oggetto, mente/corpo, emotivo/razionale.

A questa lunga tradizione scientifica, cartesiana prima e illuministica poi, le docenti e formatrici ante litteram sostituiscono una epistemologia basata sulla rivendicazione della soggettività come elemento consustanziale alla produzione del sapere, sul posizionamento del soggetto produttore di conoscenza come garanzia di trasparenza metodologica e, dunque, sull’inestricabilità di forme dell’essere e forme del conoscere. Per dirla con Sandra Harding: lo scientifico diventa personale. 

Per approfondire 

Gli esiti della ricerca qui presentata sono stati recentemente pubblicati nel volume L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Elisa Bellè, Rosenber&Sellier, Torino, 2021, pp. 228, prefazione di Silvia Gherardi  

Note

[1] N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale [1988], Feltrinelli, 2003

[2] M. Sclavi (1981), “Le origini del ’68 a Trento: come si creano e come si distruggono una, due, tre, tante fantasie”, in I giorni cantati, I, 1, pp. 75-83.

[3] “Osservazioni sullo statuto e il piano di studi nella diversa elaborazione della direzione dell’istituto e della commissione studentesca, documento del Movimento studentesco, novembre 1966”, Movimento Studentesco (a cura di) (1968), Documenti della rivolta universitaria, Laterza, Roma-Bari.