Come funzionano in Europa e da noi i congedi di maternità, paternità, parentali. Che non servono solo al benessere di genitori e bambini, ma anche per sostenere il lavoro femminile. Per questo ci si interroga sui possibili effetti negativi di congedi di maternità troppo lunghi. Meglio allora puntare su flessibilità e condivisione
Comprendere le conseguenze economiche del congedo parentale ha rilevanza politica per almeno due ragioni: in primo luogo, è necessario stabilire se abbia un effetto positivo sul lavoro delle donne, soprattutto nei paesi che non raggiungono il target di Lisbona del 60% di occupazione femminile. In secondo luogo, è importante valutarne l’efficacia nel promuovere una maggiore integrazione e una più equa condivisione delle responsabilità all’interno del nucleo familiare.
Il congedo di maternità è riservato alla madre e in molti paesi Ocse si estende sia al periodo precedente che a quello successivo al parto e prevede un’ indennità obbligatoria che va dal 50% al 100% del salario percepito; il congedo parentale è riservato ad entrambi i genitori ed è stato introdotto in Europa con la Direttiva (n.96/34/CE) del 3 giugno 1996 del Consiglio dell’Unione Europea; infine il congedo di paternità è riservato ai padri ed è presente in quasi tutti gli stati Europei con diverse durate, dai due giorni della Spagna alle due settimane del Regno Unito. In Italia, invece, il congedo di paternità non esisteva (nel ddl di riforma del mercato del lavoro all'art. 56 si introducono, in via sperimentale dal 2013 al 2015, tre giorni d congedo di paternità obbligatorio).
Le politiche di congedo di maternità obbligatorio hanno una lunga storia in Europa: ad esempio in Germania esistono sin dal 1883 (Tanaka, 2005), in Svezia dal 1891 e in Francia dal 1929. Sin dal 1919, durante le convention sulla protezione della maternità dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) sono state raccomandate dalle 12 alle 14 settimane di congedo di maternità obbligatorio retributito. Molti paesi Europei hanno tardato ad adottare tali politiche fino agli anni ’60, tuttavia oggi lo standard per l'Unione europea ed i paesi Ocse supera le raccomandazioni dell’Ilo (Ruhm, 1998). Solo pochi paesi non prevedono un congedo retribuito, ad esempio Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
Per quanto riguarda il congedo parentale facoltativo, la direttiva Ue lascia agli Stati la libertà di elaborare una propria legislazione: in Irlanda, il congedo parentale retribuito è stato introdotto nel 1998 ed ha durata di 14 settimane. Nel Regno Unito è stato introdotto nel 1999, con durata di 13 settimane. In Grecia, è stato esteso da 3 mesi a 6 mesi (e le settimane di congedo di maternità estese a 17 settimane) nel 2000 (Tanaka, 2005). In Svezia il congedo parentale dura 420 giorni e in Germania, Ungheria, Finlandia, Slovacchia, Francia e Polonia può durare fino a 3 anni. (Fonte: elaborazione su dati Eiro, 2004)
In Italia, il congedo obbligatorio è di circa sei mesi con un’indennità pari all’80% del salario, mentre il congedo parentale può arrivare ad un periodo non superiore a 6 mesi per la madre e non superiore a 7 mesi per il padre con un’indennità pari al 30% del salario. (Fonte: Inps) Secondo dati Istat, solo una bassissima percentuale di padri, l’8% nel 2005, ha usufruito del congedo parentale nei primi due anni di vita del bambino.
Gli uomini italiani che prendono il congedo parentale sono di ben 22 punti percentuali al di sotto della media europea, che è del 30% (in Svezia si arriva al 69% e in Finlandia al 59%).
Un sondaggio dell’“European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions”, riferisce che in Italia il 57% dei dipendenti sono tornati allo stesso orario di lavoro di prima (dopo aver preso congedo parentale); il 31% ha richiesto una riduzione delle ore lavorative e solo il 5% non è rientrato nel mercato del lavoro. In media solo l’11% delle imprese europee ha detto di aver incontrato difficoltà collegate al congedo parentale: in tal caso i motivi principali erano la difficoltà a trovare dello staff sostitutivo oppure la mancanza di continuità sul lavoro. Nel 22% delle imprese intervistate sono previsti dei corsi di aggiornamento a seguito dei congedi. (Riedman et at. 2006)
Tabella 1: congedo obbligatorio di maternità e congedo facoltativo in Europa
| Congedo di Maternità |
| Congedo Parentale | ||||
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| ||||
| Durata | Retribuzione obbligatoria (%) | Congedo totale | Periodo retribuito | Congedo di paternità | Mesi trasferibili | |
IT | 22 | 80 | 11 | 55 | 6 | 0 | |
DK | 18 | 62 | 11 | 70 | 0 | 11 | |
IE | 18 | 70 | 6.5 | 0 | 3.25 | 0 | |
UK | 18 | 43 | 8 | 0 | 4 | 0 | |
FI | 18 | 66 | 33 | 100 | 0 | 33 | |
PT | 17 | 100 | 6 | 8 | 3 | 0 | |
EL | 17 | 50 | 7 | 0 | 3.5 | 0 | |
ES | 16 | 100 | 36 | 0 | 0 | 36 | |
FR | 16 | 100 | 36 | 100 | 0 | 36 | |
LU | 16 | 100 | 12 | 100 | 6 | 0 | |
NL | 16 | 100 | 6 | 0 | 3 | 0 | |
AT | 16 | 100 | 24 | 100 | 6 | 18 | |
BE | 15 | 77 | 6 | 100 | 3 | 0 | |
GE | 14 | 100 | 36 | 67 | 0 | 36 | |
SE | 14 | 80 | 18 | 79 | 2 | 12 |
Fonte: Pronzato (2009)
Il congedo di maternità e il congedo parentale costituiscono un’importante forma di sostegno alle famiglie fornita dalla maggior parte dei governi ai genitori. Il loro scopo è non solo quello di favorire il benessere fisico della madre e del bambino, ma anche quello di incentivare l’occupazione femminile aiutando le donne a conciliare lavoro e vita familiare (Jaumotte, 2003); per questo motivo è fondamentale comprendere se, empiricamente, gli effetti di tali politiche siano quelli sperati. Infatti, se da un lato i sostenitori di congedi prolungati ritengono che i questi abbiano effetti positivi sulla salute dei figli e migliorino la posizione occupazionale delle donne, dall’altro gli oppositori ritengono che, limitando lo scambio volontario tra lavoratori e datori di lavoro, riducano l'efficienza economica e si traducano in un ulteriore svantaggio per le donne.
A livello teorico, congedi di maternità troppo lunghi potrebbero avere ripercussioni negative sull’occupazione e sulle carriere femminili. L’obbligo di preservare il posto di lavoro in favore della dipendente in maternità potrebbe diventare oneroso per il datore di lavoro, se protratto troppo nel tempo. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe trovare un sostituto adeguato e al termine del congedo essere obbligato a reintegrare la madre che nel frattempo potrebbe aver perso aggiornamento. Questo costo rischia di tradursi in una riduzione dello stipendio della dipendente. Qualora poi il datore di lavoro non possa discriminare la dipendente a livello salariale, potrebbe preferire – al momento dell’assunzione - un candidato maschio, soprattutto per le posizioni di responsabilità.
A livello empirico, però, gli studi non sostengono in maniera univoca queste ipotesi. Ruhm (1998) conduce un’analisi empirica su 9 stati europei e conclude che i congedi parentali sono positivamente correlati con l’occupazione femminile, ma negativamente con i salari. Lo stesso effetto negativo sui salari femminili era stato riscontrato da Gruber (1994) in uno studio condotto subito dopo l’introduzione del congedo di maternità obbligatorio in alcuni stati americani; Gruber comunque ne enfatizzava l’efficienza in quanto non aveva ridotto l’occupazione femminile, né si era tradotto in un aumento del costo del lavoro.
Altri studi evidenziano un limite massimo di tempo oltre il quale gli effetti del congedo parentale diventano negativi sia in termini di (mancato) rientro nel mercato del lavoro, che in termini di salari e evidenziano il deterioramento del capitale umano dopo un protratto periodo di assenza. Edin e Gustavsson (2001) analizzano tale relazione in un campione di adulti svedesi osservati per più anni e evidenziano la relazione negativa fra capacità cognitive dei soggetti e assenza dal mercato del lavoro per almeno 12 mesi.
In uno studio su un campione di madri lavoratrici tedesche, Ondrich et al. (2003) trovano delle prove indirette secondo cui incentivare le madri a occuparsi dei propri neonati ha come possibile conseguenza una riduzione della continuità del lavoro e dell’accumulo di capitale umano. Gli autori mostrano infatti che la possibilità per le madri di tornare al lavoro decresce all’aumentare della durata del congedo di maternità. L’effetto appare più forte per le lavoratrici part-time, in quanto più facilmente sostituibili di una lavoratrice full-time.
Al contrario, lo studio comparato di Pronzato sull’estensione del congedo parentale facoltativo in vari paesi Europei trova una correlazione positiva fra prolungato congedo parentale e probabilità che la madre rientri nel mercato del lavoro. Nel modello di Pronzato, la scelta di partecipazione al mercato del lavoro da parte della donna è vista in un contesto di scelte familiari e dipende dal consumo dell’intera famiglia, dal reddito del marito (se in coppia), dal proprio reddito e dalla propria produttività domestica che varia al variare dell’età dei figli. Una volta scaduto il tempo di congedo, la donna deciderà o meno se rientrare nel mercato del lavoro a seconda dell’offerta salariale che riceve e rientrerà solo se, in un’ottica di lungo periodo, lo riterrà conveniente. La probabilità di riprendere a lavorare dopo il congedo obbligatorio è più alta per le donne con alti livelli d’istruzione, per le quali il costo opportunità di restare fuori è maggiore, soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale dove le politiche sociali sono meno generose. Al contrario l’effetto di un più elevato reddito familiare è negativo, ma non molto significativo in alcune nazioni (Pronzato, 2009).
I congedi parentali rappresentano sicuramente un utile strumento di sostegno alle famiglie, ma dato l’effetto negativo di una prolungata assenza dal mercato del lavoro sui salari delle donne e sull'aggiornamento delle loro competenze lavorative, andrebbero affiancati da altri tipi di incentivi quali una maggiore flessibilitá dell’orario di lavoro e una maggiore diffusione dei congedi di paternitá obbligatori.
Bibliografia
Edin, P., Gustavsson, M. (2001), Time out of work and skill depreciation, mimeo, Uppsala University.
Gruber, J. (1994) The Incidence of Mandated Maternity Benefits. The American Economic Review, Vol. 84, No. 3, pp. 622-641
Jaumotte, F. (2003) Female labour force participation: past trends and main determinants in OECD countries. OECD economics department working papers no.376
Ondrich, J., Spiess, K., Yang Q., Wagner, G. (2003) The Liberalization of Maternity Leave Policy and the Return to Work after Childbirth in Germany Review Of Economics Of The Household Volume 1, Numbers 1-2, 77-110, 2003.
Pronzato, C. (2009) Return to work after childbirth: does parental leave matter in Europe? Rev Econ Household, 7:341–360
Riedmann A., H. Bielenski, T. Szczurowska and A. Wagner (2006). Working time and work-life balance in European companies, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions
Ruhm, C. (1998). The Economic Consequences of Parental Leave Mandates: Lessons from Europe. The Quarterly Journal of Economics, Vol. 113(1): 285-317
Tanaka, S. (2005) Parental leave and child health across OECD countries. Royal Economic Society, vol. 115(501), pag. F7-F28, 02