Politiche

Il contrasto della crisi climatica passa anche attraverso l'utilizzo di parole come ‘intersezionalità’, ‘diversità’ e ‘inclusione’, in grado di descriverne la complessità dal punto di vista dei diritti di genere. Un'intervista a Erika Moranduzzo, giurista e attivista per il clima, sulla 29esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 

Parole
per il clima

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Parole per il clima
Credits Unsplash/USGS

Come sappiamo dalle esperte, i cambiamenti climatici colpiscono maggiormente le donne. Dati e storie rendono indiscutibile una realtà che continua a essere ignorata da chi si riunisce ogni anno per discuterne a livello globale e governativo. Ma la società civile non tace e ha un piano.

Quando si tratta di diritti, e di garantirli trasformando privilegi in benefici per tutte e tutti, spesso sono “solo parole”. A volte, però, proprio le parole – anche solo tre: ‘intersezionalità’, ‘diversità’, ‘inclusione’ – possono trasformare interi scenari. Tra le righe, mimetizzate in testi verbosi e poco comprensibili come quelli circolati durante la 29esima edizione della Conferenza delle parti delle Nazioni Unite sulla crisi climatica (Cop29), possono diventare semi vitali di cambiamento. È necessario lottare perché compaiano, quindi. Per ripensare alle politiche climatiche, dalla finanza alla giusta transizione, con un approccio più equo, giusto, e necessario, come spiega Julie Nelson, economista dell'Università del Massachusetts. E per salvare la vita di miliardi di vittime della crisi climatica, tantissime delle quali donne

Archiviati i giorni caldi della Cop29, per comprendere a che punto siamo e come proseguire questa lotta per i diritti anche con i riflettori puntati da un’altra parte, abbiamo rivolto alcune domande a Erika Moranduzzo, giurista, ricercatrice presso l’Università britannica di Leeds e coordinatrice della sezione Clima e diritti dell'Italian Climate Network, un’associazione di volontarie e volontari per la lotta ai cambiamenti climatici fondata nel 2011 e proiettata al coinvolgimento delle giovani generazioni in attività di educazione, istruzione e advocacy su questi temi.

Moranduzzo
Erika Moranduzzo

Prima di entrare nei corridoi dello stadio in cui si è svolta la Cop29 a Baku, in Azerbaijan, puoi spiegarci perché, per affrontare un fenomeno globale come la crisi climatica, è così importante focalizzarsi sui diritti di genere? 

La ragione è prima di tutto nelle evidenze scientifiche, oltre che in quelle sottolineate dalla società civile. Il cambiamento climatico ha un impatto sproporzionato sulle donne, rispetto ad altri gruppi sociali, perché sono soggetti vulnerabili, come anche i bambini e le bambine, le persone anziane, disabili e immigrate, che già subiscono forme di disuguaglianza. Gli eventi climatici agiscono come moltiplicatori di rischio, amplificando ed esacerbando le iniquità che preesistono all’interno della nostra società. In molti report delle Nazioni Unite – sia quelli relativi ai diritti socio-economici come il diritto al cibo o all'acqua o sull’immigrazione, che quelli dedicati agli effetti del cambiamento climatico e alle correnti politiche climatiche – c’è sempre una parte dedicata alle donne come gruppo sociale, proprio perché emerge che sono particolarmente esposte a questi fenomeni: le donne hanno tassi di mortalità molto più alti rispetto agli uomini, soprattutto in contesti culturali dove non vengono insegnate loro certe cose. 

Puoi farci qualche esempio?

Per esempio, in Bangladesh o Sri Lanka, alle donne non viene spiegato come arrampicarsi sugli alberi o nuotare, quindi sono particolarmente esposte a inondazioni e allagamenti. Sono spesso ancora solo le donne a prendersi cura della casa e delle persone fragili, mettendosi regolarmente “per seconde” e rischiando maggiormente la vita. Questo per quanto riguarda l’impatto più immediato della crisi climatica, le emergenze, ma anche per gli effetti a lungo termine il disequilibrio permane. La siccità, ad esempio, ha un effetto molto maggiore sulle donne che sugli uomini, perché sono loro, soprattutto nel Sud globale, a occuparsi della gestione della terra e della produzione del cibo. E pur avendo sviluppato alcune interessanti tecnologie indigene per affrontare la siccità, non essendo proprietarie della terra, non possono realizzarle. Anche tra i migranti, l'80% delle persone sfollate sono donne.

Da cosa deriva tutto questo?

Dalla dinamica di oppressione che le donne subiscono specificamente, ancor prima degli impatti climatici. Sono schiacciate in posizioni di svantaggio rispetto agli uomini, in virtù delle dinamiche di potere generate dal sessismo istituzionalizzato nel tempo, consolidatesi nelle attuali “norme sociali di genere”, ovvero quei costrutti sociali che ci “appiccicano addosso” l’idea di quello che dovremmo essere e che ci si aspetta da noi in quanto donne, in base al nostro sesso biologico.

In questo panorama di crisi del clima e dei diritti di genere, si è svolta la Cop29. 

Grazie all'intenso lavoro di advocacy della società civile, soprattutto dalla Women and Gender Constituency, questo appuntamento prevede oggi un filone dedicato, parte del Lima Work Programme on Gender. Esiste dal 2014, e ancora oggi stiamo cercando di integrare le questioni di genere nel lavoro della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, Unfccc). Questo significa, in primo luogo, sottolineare la scarsa rappresentanza femminile all'interno dei suoi organi: è urgente garantire un'equa distribuzione dei ruoli tra i delegati e anche nelle posizioni decisionali. Secondo il Gender Climate Tracker, le donne sono ancora solo il 34% all'interno dell'Unfccc. E poi c’è l'obiettivo più ampio di includere specifiche considerazioni di genere in tutte le altre linee di lavoro, trasversalmente.

Cosa è stato (e non è stato) deciso? 

A Baku è stato deciso poco, nonostante le alte ambizioni iniziali, perché nei dialoghi tra chi ha svolto le negoziazioni si sono messi in discussione termini consolidati nell'uso negli ultimi 10 anni. Ci avrebbe fatto regredire a una visione tradizionale del mondo della complessità del genere, rispolverando parole come ‘uomini’, ‘donne’, ‘ragazze’, ‘ragazzi’. Fortunatamente questo tipo di linguaggio è stato respinto, ma lo sforzo, in quelle settimane, è diventato difendere la posizione e assicurarsi un secondo decennio di lavoro, a partire dal giorno successivo alla Cop29, verso la Cop30.

Che reazioni ci sono state da parte di chi lotta per i diritti di genere?

Di frustrazione. La Constituency Women and Gender e tutto il mondo della società civile che vi ruota intorno è preoccupata della mancata adozione di parole come ‘intersezionalità’, ‘diversità’, ‘inclusione’. Non si risolvono le questioni di genere se non si tiene conto della loro complessità della società umana.

C’è un intero mondo da trasformare. Su quali priorità è necessario focalizzarsi nei prossimi mesi, in vista anche della Cop30? 

Prima ci sono gli intermedi di Bonn, un momento utile per la società civile per fare pressione sui delegati e avere discussioni proficue sull'inclusione di termini come ‘intersezionalità’, ‘diversità’ e ‘inclusione’ nel testo sulle politiche di genere. È il punto su cui insistere, perché sono testi di natura giuridica (anche se non sempre incardinano obblighi giuridicamente vincolanti): il linguaggio in legge ha una funzione performativa, può dare forma alla realtà. Per esempio, dovrebbe indurre i governi a interessarsi genuinamente alle questioni di genere e ad affrontare le politiche climatiche tenendo conto degli schemi di oppressione e privilegio che le riguardano. Potrebbe tradursi in meccanismi di protezione più equi e in strategie di incentivi, anche economici, che tengano conto delle differenze all'interno della comunità, con una particolare attenzione ai gruppi più emarginati come le donne.

Noi, come cittadine e cittadini, cosa possiamo fare per contribuire?

Interessarcene, seguire e sostenere ciò che fa la Women and Gender Constituency, tenere alta l’attenzione e farla tenere alta (o risvegliarla o pretenderla) in chi ci governa. Anche l'Italian Climate Network stessa ha una sezione integralmente dedicata a Clima e diritti attraverso cui aggiornarsi, dialogare e aperta a chi, come volontaria o volontario, voglia impegnarsi attivamente e contribuire alle nostre iniziative.

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