Dall'impatto delle catastrofi al design delle cucine, per superare la crisi climatica c'è bisogno di un cambio di paradigma che tenga insieme genere e ambiente. Ne parliamo con Susan Buckingham, esperta di geografia umana e politiche ambientali a Cambridge
Genere e clima, per capire cosa tiene insieme due fili che potrebbero apparire distanti c’è bisogno di spingersi indietro, fino a rintracciare il modo in cui le nostre culture hanno costruito i concetti di maschile e femminile. A dirlo è Susan Buckingham, autrice di Gender and environment (Routledge, 2020), alle spalle un percorso di insegnamento al Centre for Human Geography della Brunel University di Londra, oggi ricercatrice nel settore delle politiche ambientali a Cambridge. “Genere e clima sono connessi a un livello essenziale” ci spiega in un'intervista “i processi che hanno creato le condizioni per la crisi climatica sono gli stessi che permettono che alle donne sia attribuito un valore inferiore rispetto a quello attribuito agli uomini; che le donne nere o disabili, e quelle che si prendono cura degli altri, valgano meno di tutti. È per questo motivo che affrontare la crisi climatica richiede un cambio di paradigma”.
Pensare il mondo dividendolo in categorie di opposti è un’attitudine secolare “dove di solito il secondo dei due termini è definito dal primo e vale meno, come ha spiegato bene Carolyn Merchant nei suoi libri” ricorda Buckingham. È così che abbiamo imparato a separare più che a mettere in relazione le cose, arrivando a pensare che gli umani, intesi come esseri prevalentemente maschili, potessero esercitare il controllo su tutto quello che “umano” non era, incluse le donne. Per Buckingham, come per molti altri, non è un caso che siano proprio queste a subire le conseguenze più gravi di disastri ambientali e catastrofi naturali. Un modello che si ripete: “è stato così per l’alluvione del 1991 in Bangladesh, per lo Tsunami del 2004 in Indonesia, per l’uragano Katrina del 2005 negli Stati Uniti e per l’ondata di caldo del 2003 in Francia”.
A questa sproporzione degli effetti, corrisponde una leadership ancora marcatamente maschile nella governance. E se non tutte le donne fanno la differenza in termini di politiche, Buckingham ne cita tre che una differenza per il clima l’hanno fatta: Christiana Figueres, a cui riconosce l’avvio dei piani d’azione di genere all’interno dei processi decisionali sul clima delle Nazioni Unite, Mary Robinson, che ha messo a punto un sistema di mentorship per le donne che volessero intraprendere una carriera nella governance del clima, e Anne Hildalgo, sindaca di Parigi e coordinatrice del C40 Cities fino al 2019.
Una casa distrutta dall'uragano Katrina. Louisiana, 2005 (Foto di Loco Steve)
Ma per ambire a una trasformazione reale “non possiamo fare affidamento sugli sforzi di poche donne che sono state influenti ai livelli più alti dei processi decisionali sull’ambiente” dice Buckingham “dovremmo chiederci piuttosto, come ha fatto Virginia Held nel suo The Ethics of Care, che cosa accadrebbe se considerassimo l’educazione dei bambini e lo sviluppo delle relazioni di cura non solo da prospettive individuali ma come competenze cruciali per la nostra società. E cosa accadrebbe se facessimo lo stesso per il clima in relazione alle nostre vite e a quelle delle generazioni future. Solo adottando questa prospettiva potremo cambiare le nostre abitudini di consumo e dispiegare politiche per ridimensionarne i danni”.
Insomma, continua Buckingham “non si tratta semplicemente di essere nati maschi o femmine, a influenzare il nostro rapporto con il non umano è il modo in cui la società ha costruito la nostra appartenenza a un sesso. È il motivo per cui abbiamo un indispensabile bisogno di ripensare il lavoro di cura – il suo valore e la sua condivisione – così che le donne abbiano le stesse opportunità rispetto agli uomini di giocare un ruolo chiave all’interno dei processi in cui vengono prese le decisioni sull’ambiente e su tutto”.
Anche perché, le analisi mostrano una corrispondenza tra gender balance e performance ambientali efficaci. “L’esperienza che ho accumulato sui rifiuti e sull’energia, lo evidenzia bene” racconta Buckingham, che a gennaio di quest’anno è stata chiamata come consulente esperta dalla World Maritime University di Malmo, in Svezia, per lavorare sull’empowerment femminile nelle scienze oceaniche, ed è nell’advisory board di Baltic Gender, un progetto finanziato dal programma Horizon 2020, che tiene insieme le istituzioni scientifiche di cinque paesi del mar Baltico per ridurre le disuguaglianze tra donne e uomini nelle scienze e tecnologie marine. “È la stessa corrispondenza che emerge dalle analisi su larga scala tra parlamenti equilibrati da un punto di vista di genere e legislazioni ambientali, soprattutto per quanto riguarda il clima” spiega. Per questo l’International Maritime Organisation dell’Unesco ha annunciato che nei prossimi dieci anni la ricerca su sviluppo sostenibile e scienze oceaniche presterà particolare attenzione al ruolo delle donne e all’inclusione delle loro competenze in un settore cruciale per la sopravvivenza di tutti.
Plastica a riva dopo una tempesta. San Francisco, 2010 (Foto di Kevin Krejci)
“Gli oceani sono fondamentali per la salute del pianeta” ricorda Buckingham “perché conservano il 90% del calore accumulato dalla terra e forniscono informazioni essenziali sul tasso di riscaldamento globale. Gli ultimi 5 anni di temperature senza precedenti hanno creato ondate di calore marine dannose per la biodiversità e la pesca, oltre che record sia del livello del mare che di evaporazione, cosa che ha inasprito gli eventi meteorologici, dalle piogge pesanti alle alluvioni, agli uragani”.
Come per l'industria dei rifiuti, l'industria marittima e la ricerca e la governance marine sono settori profondamente maschili e maschilisti, racconta Buckingham. Anche qui, come altrove, le donne sono presenti ai livelli di sussistenza, ad esempio nella filiera della pesca, e sono le meno pagate. Eppure “è ben noto che queste donne hanno importanti conoscenze su come funziona il ciclo della vita in mare, i processi decisionali non dovrebbero escludere questi saperi” dice Buckingham.
D'altronde nelle grandi città, dove le decisioni vengono prese, spesso gli oceani rappresentano qualcosa di distante. E forse è proprio dalle metropoli, e dalla messa in discussione dei loro meccanismi, che dovremmo ricominciare a pensare le vite. Negli ultimi anni, la pianificazione urbana ha fatto dei passi avanti in alcuni paesi europei, ma l'impressione è che si tratti sempre di casi isolati, progetti eccezionali. A mancare ancora è una volontà politica forte, una visione davvero comune. Adesso, con la pandemia, gli effetti di questa mancata visione sono sotto gli occhi di tutti.
C’è una cosa da cui le politiche dovrebbero partire secondo Buckingham: rendere minimo il bisogno di usare e possedere un’automobile, così da muoverci verso quella che "la mia collega, l’architetta femminista Ines Sanchez de Madariaga, chiama la città delle brevi distanze” dice. A beneficiarne, spiega Buckingham, sarebbero prima di tutto le donne “dato che siamo proprio noi ad avere meno probabilità di possedere una macchina o di guidarne una, e siamo noi le maggiori utilizzatrici di trasporti pubblici e percorsi pedonali”.
Ma se persino in città piccole e considerate vivibili come Cambridge – 130mila abitanti e il più alto tasso di utilizzo di biciclette in tutto il Regno Unito – le amministrazioni propongono di costruire tunnel sotterranei per ovviare al problema del traffico automobilistico, mentre il paese dichiara l’emergenza climatica, e i governi si dichiarano impegnati a stimolare le economie delle aree a bassa crescita intorno a Londra, allora qualcosa non sta funzionando.
Oggi le città esistono grazie alla realizzazione di un'ingiustizia: è qui che ha sede la maggiore offerta di lavoro, ma le case hanno prezzi proibitivi, e le fasce di popolazione con reddito medio basso sono costrette a trovare un’abitazione fuori dal tessuto urbano, in aree scarsamente o malamente collegate e prive di servizi, con una serie di conseguenze importanti sull'ambiente e sulla qualità della vita. Un modello che spesso corrisponde a giunte a preponderanza maschile, ricorda ancora Buckingham. “E non è così che dovrebbe essere” dice “considerando che in tutta Europa le città hanno già iniziato a introdurre giorni e spazi liberi dalle macchine ma città come Parigi, Oslo e Barcellona sono andate oltre, grazie a donne che ricoprivano la carica di sindache o vice sindache”.
In questo senso, Barcellona rappresenta un caso interessante. “Alla fine degli anni 2000 è stato introdotto nella legislazione il principio che la progettazione delle città deve tener conto di una prospettiva di genere, e ha messo a punto un piano per la giustizia di genere che mira a tenere al centro delle politiche urbane la vita di tutti i giorni, il problema della cura e dell’equità delle retribuzioni”. Così è nato il collettivo Punt6, un gruppo femminista di architette, urbaniste e sociologhe che lavorano con le comunità locali.
Non è l’unico caso in cui una pianificazione urbana femminista si è dimostrata più funzionale per tutti, racconta Buckingham. C’è l’esempio di Vienna “con la Frauen Werk Stadt, un complesso di edilizia popolare che ha voluto affrontare gli aspetti legati al genere delle nuove forme di vita e di lavoro in città. Ci sono le sale da pranzo e le lavanderie comuni nate a Londra nel ventesimo secolo per favorire la condivisione della cura tra le lavoratrici single, e progetti simili nati a cavallo con il ventunesimo secolo ad Amsterdam, Stoccolma e Zurigo. C’è il design modernista con i suoi appartamenti progettati da donne – comprese le case popolari di Francoforte con l'iconica cucina (progettata da Margarete Schütte-Lihotzky nel 1926 per ottimizzare spazi e tempi del lavoro domestico, ndr). E studi di architettura femminista come quello di Franceska Ullmann a Vienna e Matrix (ora chiuso) a Londra, che hanno creato progetti impressionanti. Ma nonostante sappiamo che tutto questo a un livello più esteso migliorerebbe la vita di uomini e donne, si tratta ancora di eccezioni a un settore immobiliare governato dalla massimizzazione del profitto e dall'individualizzazione consumo”.
La cucina di Francoforte disegnata da Margarete Schütte-Lihotzky nel 1926. Riproduzione del Mak di Vienna
Serve davvero un cambiamento di pensiero, ancora prima che d’azione, per capire quanto i nostri corpi come costrutti siano coinvolti in questo processo. “Credo che i nostri corpi siano importanti perché è attraverso i corpi che facciamo esperienza della natura (incluso l’inquinamento o la temperatura), e non significa che le nostre esperienze sono determinate dai nostri corpi. Piuttosto, è il modo in cui le società trattano i corpi e misurano le loro esperienze in base al sesso e al genere, a determinare spesso l’impatto” spiega Buckingham.
E, certo, finché si sbatteranno pentole e s'indosseranno grembiuli per opporsi all’abbattimento di foreste o alle esplorazioni di fracking, il rischio di scivolare nell’essenzialismo continuerà ad apparire concreto. Ma intanto per Susan Buckingham qualcosa è già cambiato. “Il termine 'ecofemminismo' per quanto mi riguarda ha più significato adesso che non trent'anni fa, quando l'ho sentito per la prima volta” racconta “quello che trovo entusiasmante è constatare che nella platea di eventi e conferenze su questi temi ci siano sempre più uomini. Sono uomini giovani, una nuova generazione che sta iniziando a riconoscere quanto la relazione tra genere e ambiente ci riguardi tutti”.
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