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Sopravvivere su un pianeta infetto è il sottotitolo dell'edizione italiana di Staying with the trouble, della biologa e filosofa della scienza californiana Donna Haraway, ma è anche una sfida di fronte a cui ci troviamo da anni, e oggi in modi ancora diversi e inaspettati

Sopravvivere su
un pianeta infetto

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Foto: Endosymbiosis, Homage to Lynn Margulis, Shoshanah Dubiner, 2012

In Staying with the trouble, uscito negli Stati Uniti nel 2016 (e tradotto in Italia da Claudia Durastanti e Clara Cicconi, Chthulucene, Produzioni Nero, 2019), la biologa e filosofa della scienza californiana Donna Haraway, considerata ormai da anni una delle più originali teoriche contemporanee, usa la metafora dell'infezione in un modo si potrebbe dire pre-pandemico, come una figura del con-divenire, un’immagine fertile di quella che, attingendo al lavoro della biologa Lynn Margulis chiama simbiogenesi. 

“Le creature non precedono le loro relazioni, si creano a vicenda attraverso il coinvolgimento di materiale semiotico, a partire dagli esseri precedenti a tali coinvolgimenti” scrive Haraway, un concetto che aveva iniziato a indagare in Compagni di specie, poi ampiamente dissertato nel suo When species meet, e che nel suo discorso assume adesso la forma di un programma politico.

Da Margulis, che definisce una “teorica radicale dell’evoluzione” Haraway riprende anche il termine olobionte per indicare tutti “gli assemblaggi simbiotici, su qualsiasi scala spaziale o temporale, che assomigliano più a nodi di relazioni intra-attive diversificate all’interno di sistemi dinamici complessi che a entità di una biologia composta da unità preesistenti legate tra loro”. Tradotto nelle parole di Margulis: qualsiasi associazione fisica tra individui appartenenti a specie diverse durante periodi significativi della propria vita.

La biologia di Haraway è fatta soprattutto di coevoluzioni, simpoiesi, mondeggiamenti, assimilazioni reciproche e digestioni parziali, processi in cui siamo tutti creature ognuna a suo modo, e dove ogni creatura è sempre intessuta da una parentela con le altre. Non ci sono un ospite e dei simbionti, ogni creatura è un simbionte. Come accade nel caso dell’Euprymna scolopes, il calamaro delle Hawaii, che solo se infettato nel punto giusto da un certo tipo di batteri bioluminescenti può apparire alla sua preda come un cielo stellato nel buio degli abissi. O in quello della Mixotricha paradoxa, un protozoo che vive nell’intestino della termite australiana, che contiene almeno cinque diversi tipi tassonomici di cellule, ognuna col proprio genoma.

Dispensare nozioni così specifiche e forse poco comprensibili a chi non si occupa di biologia serve a Haraway per coinvolgerci in un processo condiviso di assorbimento delle figure complesse attraverso cui la materia vive ed eventualmente si organizza, significa invogliarci a fare un viaggio al centro delle cose per rintracciare un pensiero nei meccanismi che, ci piaccia o meno, ci regolano. 

Sono “figure di filo”, “tropi teoretici”, “un modo per con-pensare insieme a un mucchio di compagni nella simpoiesi del tessere, dell’annodare, del filtrare, del tracciare e del setacciare”, “una forma semiotico-materiale di compostaggio, un modo di fare teoria nel fango, di stare nel disordine” scrive. Per seguirla in questo viaggio, bisogna abbandonarsi a un linguaggio che rimescola continuamente il noto e l’ignoto, il reale con l’immaginario, il materiale con il semiotico, mandando in pezzi l’ossessione per le trame lineari e privilegiando le storie con più protagonisti, senza conquiste e senza eroi, storie tentacolari come il pensiero che le genera. 

Nella foto: Donna Haraway, biologa e filosofa della scienza, teorica femminista diventata nota al grande pubblico con il suo The cyborg manifesto

Il gioco è fecondo, nella misura in cui la catena di emergenze in cui siamo immersi da almeno cinquant’anni ci chiama ancora e di nuovo alla “responso-abilità” del pensare – e per pensare bisogna trovare le parole adatte, è un esercizio di corrispondenze potenzialmente infinito da fare sempre e comunque insieme, perché le parole vanno dette a qualcuno per verificarne la risonanza e continuare a provare. Alle traduttrici va riconosciuto il merito di essersi lasciate completamente invischiare nel processo. 

Sopravvivere su un pianeta infetto è il sottotitolo dell'edizione italiana di Staying with the trouble, una frase che un anno fa poteva suonare allegorica e che oggi starebbe benissimo come titolo di una notizia dell'Ansa. Ma sopravvivere su un pianeta infetto è anche la sfida di fronte a cui ci troviamo da anni. Una sfida ben più ampia della pandemia in corso, che riguarda l'impatto che le nostre economie stanno avendo sulle trasformazioni del vivente, i modi in cui abbiamo intenzione di spendere il tempo che ci resta non solo come individui ma soprattutto come specie, le relazioni che vogliamo intrattenere con il non umano, le connessioni che riusciremo a cogliere tra “naturale” e “culturale”, arte e scienza, sessualità e ambiente, genere e clima. 

“Non si tratta solo di cambiamento climatico” scrive Haraway “ma anche dei danni provocati dalle sostanze chimiche tossiche, dell’attività estrattiva, dell’inquinamento nucleare, del prosciugamento dei laghi e dei fiumi sopra e sotto terra, della brutale semplificazione degli ecosistemi, dei vasti genocidi di persone e di altre creature, e di tanto altro ancora, in una serie di processi collegati tra loro in maniera sistemica che minacciano un grave crollo di un sistema dopo l’altro. La ripetizione può diventare un problema”. Nel nostro caso, lo è già diventato. E anche se molti si rifanno al termine Antropocene, o Capitalocene, per definire questa parentesi della storia, Haraway preferisce inventarne un altro, lo chiama Chthulucene. Termine che è diventato il titolo dell’edizione italiana del libro.

Chthulucene, per Haraway è “una parola semplice” composta da due radici greche khthôn e kainos. La seconda indica il momento presente, la prima un tempo poliedrico che non può limitarsi al qui e ora. Da questa “tempospettiva”, fa derivare la definizione di creature “ctonie” esseri “al contempo antichi e appena nati”, muniti di “tentacoli, antenne, dita, cavi, code a frusta, zampe da ragno e chiome arruffate” da cui lasciarsi ispirare. In questo bestiario rientrano coralli e farfalle monarca, ragni pieni di zampe, polpi e meduse, bambini inventati dalla sessualità non binaria dentro cui sono stati iniettati geni di specie a rischio estinzione, svezzati attraverso racconti capaci di decolonizzare le fantasie.

Nella foto: Lynn Margulis, teorica dell'endosimbiosi, con lo scienziato inglese James Lovelock ha sviluppato la cosiddetta "ipotesi di Gaia"  

Dal Manifesto cyborg (pubblicato a metà degli anni ottanta) ai suoi ultimi lavori, leggere Haraway si avvicina sempre più alla fruizione di una science fiction. Lei stessa deve molto al genere, e da anni utilizza la sigla SF”, una matassa multiforme che continua a riannodarsi tra le dita per dire fantascienza, fabula speculativa, femminismo speculativo, fatto scientifico, figura di stringa, e chissà quante altre cose. Trova le differenze, sembra essere ogni volta l’invito. 

Questo sconfinamento tra generi e discipline è ancora più evidente se “stare a contatto con il problema” (stay with it, amano dire gli anglofoni quando vorresti solo scappare da una situazione difficile), sopravvivere tra le rovine, passa attraverso l’immaginazione di qualcosa che ancora non esiste. Un futuro fantastico, come accade nell’ultimo capitolo del libro, abitato da comunità che hanno deciso di generare soprattutto parentele invece che figli, articolate attorno a bambini simbionti con tre genitori, capaci di tramandare la pratica del “compostaggio”. In questo futuro l’innovazione è contemplata solo come risultato di un rimaneggiamento di scarti, la genitorialità diventa un’eccedenza da trasformare in qualcos’altro, la migrazione è alla base della sopravvivenza e i corridoi umanitari si intrecciano a quelli ecologici. 

Di fatto, si potrebbe dire che cimentarsi nell'invenzione di una storia fantastica abbia permesso a Haraway di articolare un discorso più reale sul mondo, di fornire un modello (proprio come accade nei laboratori di biologia) di una teoria che ha preso forma attraverso i decenni. 

La cosmopolitica di Haraway si articola attorno alla certezza che “nessuna specie agisce da sola” e che “sono gli assemblaggi di specie organiche e di attori abiotici a fare la storia”, che “le metafore non bastano” e che “c’è da fare un lavoro da mammiferi” per scrollarsi di dosso la presunta superiorità di una specie ma anche il cinismo arrendevole dei catastrofisti, in altre parole per “esistere e progredire” anche e proprio iniziando a mettere in conto la morte come processo collettivo e momento creativo. 

Qui, ogni giustizia è una giustizia multispecie e passa necessariamente per un ripensamento della famiglia come soggetto genetico e feticcio giuridico. Haraway aveva già elaborato una teoria post-edipica di famiglia attorno al costrutto delle “specie compagne”. Nel capitolo finale di Chthulucene porta a compimento questa elaborazione attraverso un esercizio di immaginazione. È “il mondo delle Camille”. Una favola-innesto che funziona proprio per contagio, dove il compito affidato alla narrazione sta tutto nel rideclinare il concetto di umanità a quello di “humusità”. Il motore dell'azione: portare la popolazione terrestre dagli 11 miliardi previsti per il 2100 a 3 miliardi nel 2425.

L'autrice parte da un fatto scientifico: il calo della natalità è un problema solo se affrontato su scala ridotta. Ma su scala globale è a dir poco evidente: su questo pianeta gli umani sono troppi. E troppi esemplari di una sola specie che attingono alle stesse risorse significa una velocità non sostenibile per la capacità di un sistema, di per sé fondato su ricchezza e abbondanza, di rigenerarsi (come l'ipotesi di Gaia sviluppata negli anni settanta dalla stessa Margulis con James Lovelock sosteneva). Significa contribuire a produrre scarsità, quindi ingiustizia. È la dose che fa il veleno, recita un vecchio adagio. Allora, chi ha infettato chi?

Nella foto: le copertine dell'edizione americana e italiana 

Negli ultimi cinquant'anni la popolazione umana è più che raddoppiata, ed è stata la prima volta che questo è accaduto in un così breve arco di tempo. Adesso, dice Haraway, i fatti scientifici hanno bisogno di un femminismo speculativo. “Le femministe sono state le prime a sciogliere i presunti legami naturali e necessari tra sessualità e genere, razza e sesso, razza e nazione, classe e razza, genere e morfologia, sesso e riproduzione, persone che riproducono e persone che compongono” scrive “se vogliamo l’eco-giustizia multispecie, un tipo di giustizia che possa anche accogliere una popolazione umana diversificata, è tempo che le femministe prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie”.

“Generate parentele, non bambini”, è uno slogan a cui arriva passando attraverso una serie fittissima di riferimenti – da Lynn Margulis, Vinciane Despret, Ursula K. Le Guin a Hannah Arendt, Anna Tsing, Isabelle Stengers passando per Bruno Lautor e Hayao Miyazaki, solo per dirne alcuni. Quasi sempre, in questo plancton multiforme e viscoso in cui l’autrice si muove, in campo ci sono l’intelligenza e le competenze di artiste e scienziate che hanno dedicato la vita all’elaborazione di “materialismi sensati”, progetti attivi e presenti che stanno lavorando in questa direzione. Uno per tutti, il Crochet Coral Reef, opera collettiva all'incrocio tra matematica, biologia marina e arte tessile, nata da un'idea delle sorelle Christine e Margaret Wertheim per fermare l'erosione delle barriere coralline. Una creatura sperimentale e lanosa” che coinvolge migliaia di donne in ventisette paesi del mondo e nel 2019 è stata esposta alla Biennale di Venezia. Forse, soprattutto la manifestazione semiotica di un fatto materiale: se sopravvivere potrà tornare a essere un diritto non accadrà senza recuperare l'arte della sopravvivenza.

Riferimenti

Donna J. Haraway, Chthulucene, Produzoni Nero, 2019. Ed. or. Staying with the trouble, making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, 2016

Donna J. Haraway, When species meet, Minneapolis: University of Minnesota Press, 2008

Donna J. Haraway, SF, Speculative Fabulation and String Figures: 100 Notes, 100 Thoughts, Documenta Series 033, 2012

Immagine di copertina: Endosymbiosis, Homage to Lynn Margulis, Shoshanah Dubiner, 2012  

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