Politiche

Lavoro di cura e soft skill sono risorse sempre più indispensabili per le nostre comunità, ma quanto più sono strategiche tanto meno vengono valorizzate nel mercato del lavoro. Per colmare il pay gap, bisogna partire dagli stereotipi

Perché le donne
guadagnano meno

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Foto: Unsplash/ Daniele Levis Pelusi

Sono molti gli attori sociali che possono contribuire a un maggior equilibrio tra uomini e donne nel mondo del lavoro e fra questi il sindacato, attraverso la contrattazione, riveste un ruolo di primo piano. 

In particolare, nella combinazione sinergica tra primo e secondo livello di contrattazione, il sindacato può fornire un contributo cruciale nel contrasto alla formazione dei differenziali retributivi tra uomini e donne e nel tradurre in sostanziale la parità formale già garantita dalla legge.

Sebbene le normative adottate siano riuscite a colmare, negli anni, i vuoti legislativi che hanno permesso di contrastare efficacemente le discriminazioni dirette (cioè quelle che mirano a discriminare in modo palese le lavoratrici donne in ragione del loro sesso), sono state largamente inefficaci contro quelle “indirette” che restano inalterate e impunite.

La regolarità delle condizioni salariali imposta dalla legislazione in materia retributiva può nascondere, infatti, altre forme di discriminazione o di segregazione indirette: dalle condizioni ineguali nell’accesso al mercato del lavoro ai condizionamenti socio-culturali nella scelta del percorso formativo, con ricadute sulle opportunità professionali; da norme sociali e pressioni affettive, ancora molto marcate nei confronti delle donne, per la cura dei familiari (che sono di ostacolo al perseguimento delle carriere) alla sottovalutazione di lavori considerati “femminili”.

Questi fattori costituiscono un complesso di variabili che influiscono pesantemente sul reddito e in generale sulle condizioni economiche della popolazione femminile anche in età non lavorativa. Agiscono, cioè, lungo tutto il ciclo dell’esistenza delle donne, sia sulla fase che precede il lavoro, a scuola e all’università, sia su quella successiva della quiescenza, determinando penalizzazioni, per le donne, anche nei trattamenti pensionistici.

Le discriminazioni indirette si annidano in stereotipi latenti che influenzano, anche in modo inconsapevole, l’agire di tutti i soggetti, comprese le donne, e che incidono sulla definizione delle condizioni di lavoro nel loro complesso, generando segregazione occupazionale e retributiva.

A cominciare dalla definizione dei criteri alla base del valore attribuito alle prestazioni lavorative in termini di capacità, competenze, attitudini, quando si stabilisce la retribuzione, o fissati per la distribuzione del salario variabile.

Nonostante siano sempre più richieste e spendibili sul mercato del lavoro (tanto per le donne, quanto per gli uomini) proprio quelle prerogative tradizionalmente considerate, sulla base degli stereotipi vigenti, “femminili” – versatilità, docilità, adattabilità, pazienza, condiscendenza, propensione alla cura e alle attività organizzative – permane la forte tendenza del sistema produttivo a remunerare di più e meglio le prestazioni lavorative legate a caratteristiche considerate maschili – l’impiego di forza fisica, ad esempio – rispetto alle cosiddette soft skill, generalmente associabili al lavoro di cura e considerate femminili.

La “cura”, in particolare, è sempre più ricercata da privati cittadini, da aziende e da istituzioni pubbliche. Il lavoro di cura che si realizza col valore aggiunto dell’attenzione – del farsi carico delle aspettative dei “pazienti”, delle istanze di “clienti” e “utenti”, delle esigenze di “discenti” di ogni ordine e grado – concretizzando, di fatto, saperi distintivi e competenze sofisticate, è diventato il requisito indispensabile per tutte le attività che pretendono intelligenza relazionale, siano esse svolte da specialisti o da ausiliari. Ciononostante, il valore aggiunto che ne deriva non lambisce chi lo produce. Il lavoro di “cura” rimane, a tutt’oggi, il grande escluso dalla dimensione politica e da quella economica.

Non meno problematici, dal punto di vista del gap retributivo di genere, i criteri per la distribuzione dei premi di risultato basati sulla presenza, ancora ampiamente utilizzati negli accordi in materia. Se, da un lato, legare l’erogazione di premi incentivanti alla quantità di ore lavorate o al numero di presenze, può apparire la scelta di un criterio oggettivo, “neutro”, facile da definire e da verificare – anche da parte del sindacato – dall’altro, stante il minor numero di ore e le maggiori assenze per necessità di cura della famiglia tipiche dell’occupazione femminile, rende più difficile per le donne ottenere il premio e contribuisce a perpetuare gli stereotipi nel tempo.[1]

Così come non si può sottovalutare l’impatto che l’inquadramento le tipologie di rapporto di lavoro hanno sulla segregazione verticale e sul differenziale retributivo tra uomini e donne.

Il contratto part-time, ad esempio, spesso proposto e utilizzato, e non senza ragione anche in sede contrattuale come strumento per favorire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e come strumento di flessibilità per favorire la conciliazione vita-lavoro, ponendosi come “neutrale” rispetto al modello culturale dominante, non fa altro che riproporre asimmetrie e squilibri di genere derivanti da tale modello, finendo persino per trasformarsi in ulteriore strumento di segregazione occupazionale e favorire la segregazione retributiva.

Una misura “neutra”, che non metta in discussione un framework socio-culturale che perpetua e supporta squilibri e stereotipi dentro e fuori il mercato del lavoro, pur se pensata a vantaggio delle donne, finisce per riprodurre le stesse asimmetrie.

È il rischio che si corre oggi anche con gli strumenti di welfare nei luoghi di lavoro, e che stanno diventando una delle materie principali della contrattazione di secondo livello, in particolare alla luce delle recenti evoluzioni della normativa che estendono la possibilità di detassazione anche nell’ipotesi che le misure di welfare siano sostitutive di elementi fissi o variabili della retribuzione.

È fortemente probabile che lo scambio di beni e servizi con il premio e la sua finalizzazione alla conciliazione tra vita privata e vita professionale produca effetti sulla dimensione variabile della retribuzione differenziati tra i lavoratori. Quando si tocca il lavoro di cura, infatti, si entra in un terreno più frequentato da lavoratrici che da lavoratori, nonostante la genericità dei riferimenti. Anzi, tanto più il welfare aziendale è rivolto a strumenti di conciliazione, tanto più è probabile che venga richiesto dalle lavoratrici, aggravando ulteriormente i differenziali e finendo, così, per ampliare invece di ridurre come sarebbe necessario il gap retributivo e, in prospettiva, quello pensionistico.

Riconoscere l’azione degli stereotipi latenti e comprendere come scardinarli diventa, quindi, essenziale, anche per il sindacato, per evitare che gli effetti delle proprie iniziative su soggetti diversi possano tradursi in risultati persino opposti a quelli desiderati.

Note 

Si veda il Gender Policies Report 2020 di Inapp, in particolare il capitolo 5.
 
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