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A volte le imprese offrono orari flessibili utili per l'organizzazione della vita familiare, oppure servizi di welfare, come i nidi. Ma le donne si avvantaggiano meno degli uomini di queste possibilità, perché hanno minore potere contrattuale in azienda. Il che si vede anche da premi e benefit vari

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Pur occupandosi maggiormente delle attività di cura di bambini e persone non autosufficienti, le donne presentano minor potere contrattuale rispetto agli uomini nel momento in cui si tratta di negoziare con i datori di lavori l’offerta di servizi di welfare e la flessibilità dell’orario di lavoro. Questo è ciò che emerge dall’indagine dell’Istat sulle criticità dei rapporti lavorativi in un’ottica di genere, dalla quale è possibile rendersi conto di quali siano i lavoratori dipendenti cui le imprese offrono servizi di welfare aziendale, fra cui il rimborso delle spese per l’asilo nido o la scuola materna.

Come si può osservare dalla figura 1, la quota di donne cui sono offerti questi servizi è sempre inferiore a quella degli uomini con la sola eccezione dell’istruzione e formazione che, fra l’altro, generalmente non è un onere per l’impresa perché è finanziata dalle regioni o dai fondi interprofessionali.

Anche la più bassa quota di donne (4,2%) rispetto agli uomini (6,4%) cui il datore di lavoro ha offerto un servizio per l’infanzia lascia supporre che le donne che lavorano abbiano minore potere contrattuale degli uomini.

Figura 1 - Occupati alle dipendenze il cui datore di lavoro fornisce o rimborsa parzialmente alcuni servizi, divisi per sesso – Anno 2007 (per 100 occupati alle dipendenze dello stesso sesso)

 

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat (2007).

 Questa ipotesi è confermata dalla tabella 1, ricavata dall’indagine ad hoc su “Famiglia e Lavoro” dell’Istat (2010a), sul livello di flessibilità degli orari di lavoro nelle imprese italiane. Oltre a mostrare che solo poco più di un terzo dei lavoratori dipendenti può variare l’orario di entrata e di uscita dal lavoro, rivela che le donne, nonostante siano caricate da maggiori impegni di cura dei bambini e degli adulti non autosufficienti, non beneficiano più degli uomini di orari flessibili ma, al contrario, sono leggermente penalizzate perché il 65% è occupata in un’impresa nella quale l’orario di entrata e di uscita è stabilito in modo rigido dal datore di lavoro rispetto al 64,1% degli uomini.

 

Tabella 1 - Occupati alle dipendenze di 15-64 anni per tipologia di orario lavorativo e sesso - II trim. 2010 (valori assoluti e composizione percentuale)

 

 

Un orario di entrata e di uscita stabilito in modo rigido dal datore di lavoro

Un orario di entrata e di uscita flessibile con una delle seguenti possibilità:

Altro

Non sa

Totale

Numero di ore giornaliero fisso (ad esempio 8 ore) con flessibilità

Accumulo di ore a credito o a debito (banca ore)

Nessun vincolo di orario

Totale orario flessibile

 

Valori assoluti

Maschi

        6.074.901

      2.897.312

      101.678

      334.457

   3.333.447

        27.044

        36.489

        9.471.882

Femmine

        4.895.737

      2.276.302

        79.995

      253.669

   2.609.966

        11.593

        19.088

        7.536.385

Totale

      10.970.638

      5.173.614

      181.674

      588.127

   5.943.414

        38.637

        55.577

      17.008.267

 

Composizione percentuale

Maschi

64,1

30,6

1,1

3,5

35,2

0,3

0,4

100,0

Femmine

65,0

30,2

1,1

3,4

34,6

0,2

0,3

100,0

Totale

64,5

30,4

1,1

3,5

34,9

0,2

0,3

100,0

Fonte: nostra elaborazione su dati Istat (2010a).



 

Il minore potere contrattuale delle donne nel negoziare orari più flessibili e maggiormente compatibili con gli impegni familiari è influenzato da una serie di fattori. In primo luogo, la componente femminile è presente in misura relativamente maggiore nelle mansioni esecutive che si caratterizzano per una maggiore rigidità dell’orario di lavoro. Al contrario, la componente maschile è maggiormente rappresentata nelle posizioni dirigenziali dove la flessibilità è molto alta e la gestione del tempo in piena autonomia è molto diffusa. Inoltre, i settori di produzione dove si registra una maggiore presenza femminile, quali quelli dell’istruzione e della sanità, presentano orari di lavoro più rigidi, e spesso le posizioni apicali sono riservate agli uomini. Ancora, ben nota è la concentrazione del lavoro femminile in settori e posizioni lavorative meno tutelati per quanto riguarda i diritti soggettivi e collettivi e in ruoli subalterni caratterizzati da modeste possibilità di avanzamenti di carriera. Sulle possibilità di carriera delle donne incidono inoltre le interruzioni per la gravidanza sulle quali, ad eccezione dei messi immediatamente precedenti e successivi la nascita del bambino, potrebbero intervenire adeguate politiche di congedo parentale.

 Il caso italiano non è isolato. Da una ricerca di Rupert, Stancanelli e Wasmer (2009) sul potere contrattuale dei lavoratori francesi emerge che il potere contrattuale delle donne con bambini al di sotto dei tre anni relativamente alla flessibilità del lavoro è pari sostanzialmente a zero. Le donne che si fanno carico di bambini piccoli devono accontentarsi di lavori o mansioni meno qualificati che non consentono la riduzione dell’orario di lavoro e soprattutto non possono accettare offerte migliori se comportano la necessità di spostarsi ogni giorno dal luogo di residenza a un luogo di lavoro molto lontano o addirittura in un’altra città per una evidente incompatibilità con le esigenze di cura dei figli.

Il potere contrattuale delle donne, misurato sulla base del differenziale salariale di genere, è inoltre fortemente correlato secondo una relazione inversa alla disponibilità di servizi per la cura dell’infanzia, soprattutto per i bambini al di sotto di tre anni, poiché consente alle lavoratrici di dedicarsi maggiormente all’impresa, alla carriera e a fare maggiori investimenti sulle proprie competenze. In più, tali servizi incoraggiano le donne a rientrare prima al lavoro dopo la maternità riducendo i costi per l’azienda.

Secondo dati Inps (2010), il potere contrattuale delle donne è minore soprattutto nelle posizioni più basse perché le lavoratrici più qualificate hanno maggiore potere di negoziare, anche a livello individuale, retribuzioni e benefits più alti: in Italia le donne guadagnano mediamente il 72% del salario degli uomini, percentuale che sale all’86% per le donne quadro e all’81% per le dirigenti, ma scende al 68% se si tratta di operaie.

Il minore potere contrattuale delle donne è confermato anche da una indagine campionaria dell’Isfol sulla disuguaglianza di genere nella retribuzione integrativa dalla quale emerge che “la presenza di donne nelle imprese riduce la probabilità di adottare schemi di retribuzione integrativa, pur a parità di fattori produttivi osservabili” (Ricci, 2010, p. 20). Tra i fattori che possono incidere sulla relazione negativa tra premi di produzione e quote di donne in azienda, quelli che sembrano pesare maggiormente sono la minore sindacalizzazione delle donne rispetto agli uomini (hanno minore capacità di rivendicare la redistribuzione dei profitti) e il fatto che ricevono meno formazione rispetto ai lavoratori maschi (beneficiando, perciò, di meno degli incrementi di produttività).

Incide probabilmente anche la modesta presenza delle donne negli organismi direttivi dei principali sindacati: la media di presenza nei vari organismi dirigenti sia esecutivi che deliberanti della Cgil, raggiungeva nel 2002 circa il 40%, a fronte di una presenza media del 12% circa, registrata negli altri principali sindacati confederali italiani (Randino, 2010).

Nei paesi europei dove si registrano i più alti tassi di occupazione come la Danimarca, la Svezia, la Finlandia e la Norvegia e dove le donne sono riuscite a negoziare orari di lavoro più flessibili e servizi più diffusi ed efficienti di conciliazione, la quota di donne iscritte al sindacato è superiore a quella degli uomini (EIRO, 2009).

Le evidenze emerse dall’indagine dell’Isfol sono confermate da quelle fornite dall’Istat (2010b) secondo cui una quota minore di lavoratrici percepisce i premi di produttività (19,2% le donne e 21,1% gli uomini) e le lavoratrici ricevono minori compensi accessori: nel 2009 mediamente le donne hanno guadagnato 1.121 euro netti per premi di produttività, partecipazione agli utili o stock options, 324 euro in meno rispetto agli uomini (1.445 euro).

Il fenomeno del più basso potere contrattuale delle donne in tutte le forme in cui si manifesta è stato scarsamente valutato nell’ambito degli studi sulle diseguaglianze di  genere e rischia di essere aggravato dal sempre maggiore peso che assume la contrattazione integrativa a livello aziendale. È sufficiente ricordare che l’inclusione del lavoro straordinario nella quota di  salario  detassato,  spesso  unica misura di presunto incremento della  produttività,  danneggia fortemente le donne e la stessa possibilità di conciliare il lavoro con gli impegni familiari. Per questo è necessario segnalare con forza il rischio che il processo di riforma delle relazioni  industriali,  certamente  auspicabile,  si muova ancora una volta in un’ottica discriminatoria tra lavoratrici e lavoratori.

 

Riferimenti bibliografici

Arulampalam, W., A. L Booth, e M. L. Bryan (2007), “Is There a Glass Ceiling over Europe? Exploring the Gender Pay Gap across the Wages Distribution”, Industrial and Labor Relation Review, vol. 60, n. 2, pp. 163-186.

EIRO (2009), Trade union membership 2003–2008, Membership by gender

INPS (2010), Osservatorio sui lavoratori dipendenti, Retribuzioni e periodi retribuiti nell’anno per qualifica, INPS, Roma.

Istat (2007), Indagine di Ritorno sulle criticità dei percorsi lavorativi in un’ottica di genere, Istat, Roma.

Istat (2010a), Modulo ad hoc “Famiglia e lavoro” della rilevazione sulle forze di lavoro, II trimestre, Istat, Roma.

Istat (2010b), Indagine sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie, EU-SILC (Statistics on Income and Living Conditions), Istat, Roma.

Randino, S. (2010), La rappresentanza delle donne nel sindacato: il caso CGIL, Quaderni di Donne & Ricerca.

Ricci, A. (2010), La retribuzione integrativa e disuguaglianza di genere: il ruolo dei fattori osservabili, Isfol, Roma.

Rupert, P., E. Stancanelli, e E Wasmer (2009), Commuting, Wages and Bargaining Power, IZA DP No. 4510, October.