Politiche

Dopo l'autogol di Guido Barilla con le sue famiglie imbalsamate nella tradizione, è sempre più evidente l'importanza di una visione che comprenda le differenze e le diversità. Ma come può un gruppo dirigente uniforme per genere, età, cultura, orientamento sessuale e religione avere le chiavi per comprendere e interagire con successo in un mondo che uniforme non è?

Quando la diversità è un valore,
e una (buona) strategia

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Viviamo in società in continua evoluzione, si allargano gli orizzonti, si complicano gli scenari, i punti di riferimento mutano. Leggere la realtà alla luce dei soliti vecchi stereotipi è eticamente scorretto e rischia di trasformarsi in un boomerang per chi non si accorge che il mondo non è più in bianco e nero come in certe pubblicità degli anni cinquanta. In effetti come può un’organizzazione o un’impresa con un gruppo dirigente uniforme per genere, età, cultura, orientamento sessuale e religione avere le chiavi per comprendere e interagire con successo in un mondo che uniforme non è?

Le differenze e le diversità, considerate una ricchezza in natura con il suo patrimonio di biodiversità, diventano un elemento di valore anche nelle organizzazioni e nelle imprese più innovative. Se le organizzazioni e le imprese vogliono essere competitive e rimanere su un mercato sempre più globale, se vogliono soddisfare i bisogni primari o indotti dei loro clienti, è necessario che si attrezzino per capire quali sono questi bisogni e per trovare modi nuovi per soddisfarli. Senza pregiudizi che potrebbero rivelarsi fatali. È cronaca recente il clamoroso autogol dell'imprenditore italiano che si è ritrovato ostaggio di un boicottaggio mondiale per aver affermato con leggerezza la difesa di una versione di famiglia imbalsamata nella tradizione, e vale la pena ricordare che l’infelice uscita sulle famiglie omosessuali seguiva a stretto giro la difesa dell’immagine della donna ancella operosa del focolare familiare. Ma si cominciano anche a vedere imprese che della diversità fanno consapevolmente una strategia di marketing.

La pubblicità è un specchio di come cambiano (o come non cambiano) le visioni stereotipate del  mondo, ma è anche uno strumento potente a disposizione di un’azienda per veicolare una certa immagine di sé, il suo scintillante biglietto da visita. I consumatori sono sempre più attenti a comprare beni e servizi con cui si identificano e che li rappresentano, tanto più in tempo di crisi, e alcune multinazionali giocano per prime e con successo la carta del diversity. Aziende come Ikea, che da un lato contribuiscono  a uniformare le case di tutto il mondo e dall’altro fanno del diversity un elemento di vantaggio competitivo da sempre, promuovono una versione multi sfaccettata della famiglia (allargata, in movimento, intergenerazionale, omosessuale) all’insegna del  “Per cambiare basta poco”, i nostri prodotti sono in linea con il mutare dei tempi e vanno bene per tutti.

E il marketing non è che la punta dell’iceberg. Aziende come Oréal, multinazionale nel campo dei profumi e della cosmetica, da sempre all’avanguardia in programmi che sostengono quella che i francesi chiamano mixité, (nell’ambito della quale gli interventi a favore della leadership femminile hanno un ruolo di primo piano) e pionieri nel considerare la valorizzazione delle differenze una leva strategica per la competitività e la crescita, hanno un Direttore dello Sviluppo Internazionale delle Risorse Umane, nonché Direttore dei Programmi di Diversity a livello globale che dichiara: «La diversità non é una rivoluzione. Si tratta di fare in modo che la società rifletta la realtà» [1]

Ed infatti Oréal ha una strategia di diversity management, ovvero di valorizzazione delle diversità, che si traduce in azioni molto concrete, dalla riduzione dei differenziali salariali di genere (dichiarano di essere al di sotto del 4%) alla previsione di misure per sostenere le cosiddette carriere duali, al finanziamento di programmi a sostegno alle donne ricercatrici, alle misure a supporto dell’articolazione dei tempi di vita e di lavoro (quella che noi chiamiamo conciliazione). Strategie che si traducono, per rimanere al caso  L'Oréal, nella capacità di promuovere prodotti cosmetici, per definizione a forte rischio “stereotipo”,  all'insegna del “perché io valgo”, mutuato dai movimenti di liberazione femministi degli Stati Uniti degli anni ’70. Uno slogan che, quantomeno nelle intenzioni, si propone di valorizzare l’identità individuale e di parlare a un pubblico variegato per sesso, età, origine etnica, colori (Oréal per prima ha pensato a linee e palette per donne non caucasiche). Certo siamo su un terreno scivoloso e non mancano, per lo meno in Francia, gli attacchi a Oréal rea di promuovere comunque un’immagine di donna sottomessa al diktat della bellezza. Tuttavia nei suoi spot, molto più che in quelli della concorrenza, si vedono modelle differenti tra loro, compresa l’atleta paraolimpica Aimee Mullins.

Il caso Oréal non è che uno degli esempi delle attenzione che le grandi imprese investono nella gestione delle diversità. Un caso paradigmatico, oggetto, tra gli altri, di un articolo “Come l’Oréal gestisce il multiculturalismo” apparso nel  Giugno 2013 sull’Haward Business review [2], in cui si parla di Diversity Management soprattutto dal punto di vista del multiculturalismo. Gli autori mettono in evidenza l’importanza che ha oggi, per un’azienda come Oréal ma non solo, avere un gruppo dirigente multiculturale, capace in virtù della propria appartenenza ad ambiti identitari differenti di trovare soluzioni innovative a problemi globali. «I manager multiculturali sono capaci di fare associazioni creative e di identificare analogie tra mercati appartenenti ad aree geografiche diverse permettendo all'azienda di sviluppare prodotti globali e di produrre marchi globali mantenendo intatta la sensibilità  per le differenze dei mercati locali», si legge nell'articolo.

Anche per questo le società di selezione delle risorse umane cominciano a dare valore alla multiculturalità e alcune di loro si sono specializzate nella selezione di talenti con identità multiculturali [3], aprendo le porte, per esempio, ai giovani italiani di seconda generazione [4]  e riconoscendo alle identità multiple e “non tradizionali” un valore aggiunto che deriva proprio dal sommare punti di vista appartenenti a mondi diversi.

Il multiculturalismo, il genere, l’età, le diverse abilità fisiche e mentali, la provenienza etnico-culturale, l’orientamento sessuale, la fede religiosa: le organizzazioni in cui viviamo e lavoriamo sono sempre meno uniformi e in una società multietnica e complessa la diversità non è solo un elemento con cui è necessario sapersi confrontare ma è anche una risorsa che permette di progettare soluzioni creative e innovative, che tengano conto dei diversi punti di vista. Le organizzazioni che vogliano essere competitive non possono permettersi di non valorizzare i propri talenti né di perdere potenziali interlocutori (clienti, utenti, committenti) per la propria incapacità di rapportarsi alle diversità. Per poter definire politiche di intervento e strumenti efficaci, nei diversi ambiti sia pubblici che privati, diventa fondamentale avere consapevolezza delle normative anti-discriminatorie, delle dinamiche organizzative e degli strumenti più adatti per definire ed attuare un approccio di diversity management, ovvero di valorizzazione sistematica delle differenze.

* Barbara De Micheli è coordinatrice del Master in Gender Equality and Diversity Management presso la Fondazione Brodolini

 

Note

[1] L’intera intervista, rilasciata ad EVE, il primo media francofono dedicato alla leadership femminile e sponsorizzato da una stretta cerchia di imprese a favore della mixité (tra le altre Oréal, Danone, KPMG, Orange) merita una lettura completa per avere una panoramica degli interventi che le aziende possono mettere in pratica per sostenere in concreto le diversità in azienda http://www.eveleblog.com/oser/jean-claude-le-grand-directeur-du-developpement-international-rh-de-loreal-la-diversite-ce-nest-pas-une-revolution-cest-faire-en-sorte-que-la-societe-soit-le-reflet-de-la-realite

[2] “How L’Oreal masters multiculturalism” issue of Harvard Business Review June 2013 di Hae-Jung Hong, assistant professor alla Rouen Business School e Yves Doz INSEAD Emeritus Professor of Strategic Management; ripreso nell’articolo di quest’ultimo “the rise of Multicultural Managers” http://knowledge.insead.edu/leadership-management/talent-management/the-rise-of-multicultural-managers-2552#MoX2rTWChCsiht57.99

[3] È questo il caso, ad esempio, di Bonboard che ricerca per i propri clienti soggetti multiculturali http://bonboard.it/

[4] Si definiscono G2 i giovani accomunati dal fatto di essere nati in Italia da genitori non italofoni o di essere nati all’estero ma di aver iniziato il proprio percorso di studi nelle scuole italiane, al pari dei loro coetanei italiani anche di diritto.