Politiche

In Turchia, il presidente Erdoğan ha annunciato che è attualmente in discussione la possibilità di recedere dalla Convenzione di Istanbul. L'ennesimo tassello di una strategia politica che da anni attacca le donne

In Turchia è in atto
una guerra alle donne

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Foto: Unsplash/ Theodoris Katis

Secondo alcuni rapporti pubblicati di recente, il lockdown imposto per fare fronte all’emergenza sanitaria da Covid19 ha comportato un aumento della violenza sulle donne in tutti i paesi del mondo. In Turchia, dove i femminicidi avevano raggiunto livelli critici già molto tempo prima dell’inizio della pandemia, non passa giorno senza che una donna venga assassinata. 

Di fronte a questa ondata crescente di violenza, il governo, attualmente guidato dal Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), ha messo in atto politiche che limitano i diritti conquistati dalle donne e che inaspriscono ulteriormente le disuguaglianze di genere. Proprio qualche giorno fa, il presidente Erdoğan ha annunciato pubblicamente che è attualmente in discussione la possibilità di recedere dalla Convenzione di Istanbul.

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica è comunemente nota come “Convenzione di Istanbul” proprio perché è stata aperta alla firma in quella città nel 2011. Inoltre, la Turchia è stata il primo Paese a ratificarla, e un’esponente del mondo accademico turco è stata la prima a ricoprire il ruolo di presidente del comitato di esperti ed esperte per il monitoraggio dell’attuazione della convenzione. Dato il forte sostegno fornito dalla Turchia a questo strumento di tutela dei diritti umani, è difficile comprendere questo brusco cambio di rotta a livello politico.

Tra le novità alquanto sconcertanti introdotte a livello politico vi è sicuramente la trasformazione di Santa Sofia, sito patrimonio dell’umanità, da museo a moschea. Considerando che una parte di questo sito storico era quotidianamente aperto al culto almeno dal 1991 e che l’area circostante è piena di moschee (tra cui la bellissima Moschea Blu, proprio dall’altro lato della strada), sorprende come Santa Sofia sia diventata un tema politico di pubblico interesse.

Riteniamo che questi cambiamenti a livello politico debbano essere visti come la manifestazione di una strategia politica multistrato. Tale strategia ha vari obiettivi: rivedere l’agenda politica; tranquillizzare la fronda conservatrice, oggi sempre più esigua, del partito; attuare l’ambizioso piano di Erdoğan di rivitalizzare l’identità islamica dello Stato ottomano in Turchia; e consentirgli di restare al potere più a lungo.

Le crisi economiche attualmente in atto – che hanno comportato un aumento della disoccupazione di massa, un debito estero enorme e un deprezzamento costante della lira turca, il tutto aggravato dall’emergenza sanitaria – si sono tradotte in un’erosione del sostegno politico di cui godevano Erdoğan e il suo partito. I problemi economici, uniti all’impegno prolungato in Siria e al ruolo significativo giocato, per ragioni di mera opportunità, nell’ambito del conflitto libico, hanno indebolito la loro base di potere all’interno del paese, nonché il loro status a livello internazionale. La sconfitta riportata nei principali comuni in occasione delle elezioni amministrative del 2019 ha mostrato quanto forte fosse lo scontento all’interno dell’elettorato. Pertanto, l’attuazione di politiche intrise di messaggi di stampo culturale, che costano poco dal punto di vista economico ma rinfocolano l’orgoglio nazionale, alimentano i sogni espansionistici e corroborano le affermazioni maschiliste di alcuni gruppi, ha come scopo quello di distogliere l’attenzione dai problemi reali e rafforzare il sostegno che viene fornito dalla base conservatrice.

Inoltre, Erdoğan ha profuso molto impegno nel cercare di invertire, entro il 2023, il percorso laicista avviato nel 1923. Incanalando le risorse finanziarie e dedicate all’istruzione verso un obiettivo specifico, ovvero crescere “generazioni virtuose”, è diventato sempre più esplicito per quanto riguarda il suo piano di “islamizzazione” del paese. Oggi, dovendo fare i conti con una popolarità in forte diminuzione, le politiche repressive di stampo islamista vengono messe in atto non solo avendo in mente un ideale ben preciso ma anche una strategia per la sopravvivenza. Venendo incontro alle richieste delle reti religiose organizzate, Erdoğan cerca di mantenere il potere riproponendo politiche di genere di stampo conservatore che un tempo erano state accantonate.

Le politiche di genere dell’Akp sono state sempre caratterizzate da elementi contraddittori e da un approccio duale. Quando è salito al potere nel 2002, il partito ha portato avanti le riforme legislative già avviate dai governi precedenti, con lo scopo di fornire una risposta alle istanze provenienti dalle organizzazioni femminili, nonché di rispettare i parametri stabiliti per gli stati che aspirano a entrare a far parte dell’Unione europea, oltre agli obblighi discendenti dai trattati internazionali. A tal proposito, è stata attuata una riforma di ampia portata del codice penale, ed è stata introdotta una legge volta a prevenire la violenza sulle donne. Nel 2006, l’allora primo ministro Erdoğan ha diramato una circolare che imponeva a tutti gli enti pubblici di adottare misure per combattere la violenza di genere.

Tuttavia, anche in quell’occasione, i comuni governati dall’Akp e la Direzione per gli affari religiosi hanno continuato a organizzare workshop sul matrimonio e a distribuire opuscoli che etichettavano le donne principalmente come madri e casalinghe, e ne promuovevano il controllo da parte degli uomini. Aspetto ancora più rilevante, le disposizioni normative in materia di uguaglianza di genere hanno trovato attuazione in poche occasioni, e il posizionamento del paese rispetto ai vari indici delle Nazioni Unite in materia di uguaglianza di genere ha visto un forte peggioramento durante il periodo di governo dell’Akp.

Quando Erdoğan e il suo partito hanno acquisito maggiore fiducia, le norme di genere di stampo patriarcale e le motivazioni di natura religiosa che ne sono alla base sono diventate sempre più esplicite all’interno della dialettica e delle politiche da essi attuate. Erdoğan ha iniziato ad affermare pubblicamente che gli uomini e le donne non sono uguali “per natura” e a etichettare le donne orientate alla carriera come “contro natura” e incapaci di comprendere e apprezzare l’importanza della maternità nella cultura islamica.

La sacralità della famiglia e della maternità hanno sempre rappresentato aspetti di primo piano dell’ideologia di genere del partito; tuttavia, la dialettica e le politiche a favore della natalità sono diventate sempre più esplicite. Giustificando le proprie azioni con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico, Erdoğan ha iniziato a incoraggiare le donne a partorire dalle tre alle cinque volte. Si è anche opposto al controllo delle nascite, all’uso della contraccezione e all’allattamento artificiale liquidandoli come pratiche contrarie all’Islam, e ha etichettato come “assassinio” la pratica dell’aborto, che in Turchia era stato legalizzato nel 1983.

Sebbene Erdoğan, in occasione della campagna elettorale del 2002, abbia definito le “discriminazioni contro le persone omosessuali” come inumane e si sia pronunciato a favore della tutela giuridica dei loro “diritti” e “libertà”, non ha impiegato molto a intraprendere un brusco cambio di rotta. L’appoggio esplicito delle norme di genere di stampo patriarcale ha incoraggiato un gran numero di esponenti dell’Akp e di membri del governo, nonché la Direzione per gli affari religiosi, a definire pubblicamente l’omosessualità come una “malattia” che si diffonde a danno di bambini e bambine e delle famiglie. Le marce dell’orgoglio Lgbt+ sono state messe al bando per molti anni consecutivi. Oggi, il divieto di discriminazione, sancito dalla Convenzione di Istanbul, che proibisce qualsiasi forma di discriminazione, viene preso a pretesto per liquidare la convenzione come uno strumento di promozione dell’omosessualità e di distruzione della famiglia.

Le varie proposte di legge avanzate dall’Akp, il cui obiettivo era quello di mettere al bando l’aborto, ridurre il numero di ipotesi nelle quali è possibile ricorrere al parto cesareo, e legalizzare i matrimoni infantili, sono state archiviate sull’onda delle proteste organizzate dalle organizzazioni femminili. Oggi, tuttavia, vengono riproposte. L’attuale programma legislativo del governo include la limitazione del diritto delle donne divorziate al mantenimento, nonché la concessione una tantum dell’amnistia a coloro che stanno scontando una pena in carcere per abuso sessuale di minori qualora accettino di sposare la vittima – si tratta di una misura che, se attuata, consentirebbe a un uomo di prendere in moglie una bambina qualora la differenza d’età tra di loro sia inferiore o uguale a 15 anni.

Il governo guidato dall’Akp, un tempo impegnato nell’attuazione di riforme legislative in collaborazione con le organizzazioni femminili, inclusa la ratifica della Convenzione di Istanbul, oggi non solo rappresenta una minaccia per tali organizzazioni e per le loro rivendicazioni in termini di diritti, ma risponde alle proteste di queste ultime con la violenza di stato. Le donne, tuttavia, continuano a impegnarsi e a dimostrare resilienza e solidarietà.

La guerra che l’Akp ha dichiarato alle donne ha provocato proteste in vari segmenti della società, tra cui il mondo della politica e il mondo delle imprese, e perfino tra i membri e la base elettorale dell’Akp, in particolare all’interno della componente femminile. Perfino un’organizzazione femminile filogovernativa quale Kadem, nel cui consiglio direttivo siede la figlia di Erdoğan, si è pronunciata a favore della Convenzione di Istanbul. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate rivelano la concezione riduttiva che questa organizzazione ha dei diritti delle donne, nonché il rifiuto delle identità Lgbt+.

All’opposto, più di 300 organizzazioni femministe e Lgbt+ hanno dato vita a una piattaforma unificata. Considerando tutte le forme di discriminazione e le disuguaglianze di genere come componenti intrinseche al sistema e all’ideologia patriarcali, la Piattaforma delle donne per l’uguaglianza (Esik) si pone come obiettivo la tutela dei diritti di ogni persona, senza alcuna forma di discriminazione. Le organizzazioni femministe in Turchia suscitano ammirazione da più parti in quanto risultano essere i soggetti che attuano la forma più resiliente ed efficace di opposizione alla deriva autoritaria del governo guidato dall’Akp, nonché alle violazioni dei diritti umani da esso perpetrate.

Le attiviste fanno sentire la propria voce anche sulle isole e all’interno delle varie comunità, parimenti a quanto hanno fatto in passato, quando hanno fatto pressione sul parlamento affinché venissero adottate le riforme legislative. Dal momento che l’Akp è salito al potere in larga parte grazie al contributo meticoloso delle donne, alle quali si deve la realizzazione di una campagna elettorale capillare, il loro passaggio all’opposizione (motivato da un senso di delusione) potrebbe far comprendere all’Akp che le concessioni fatte ai conservatori di stampo islamista non sono accettabili e non eviteranno al partito una sonora sconfitta. 

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