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Violenza domestica: le donne stanno vivendo un'emergenza abitativa ed economica che rinsalda una situazione ormai da anni strutturale

Violenza, il "raptus da
quarantena" non esiste

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Foto: Unsplash/ Tim Mossholder

Dall’inizio della quarantena si contano almeno dieci femminicidi in Italia.[1] Non si possono contare invece gli altri episodi di violenza, quelli che non sono sfociati nell’omicidio. Tutto questo a fronte, in un primo tempo, di un calo delle denunce. Infatti, se nel marzo 2019 il numero di denunce era pari a 1.157, nel marzo 2020 ne sono risultate soltanto 652[2]. Perché? Una prima risposta è che ci sono state, per le donne coinvolte, delle ragioni pratiche – come la difficoltà a rinvenire un momento per chiedere aiuto, per telefonare o per trovare l’opportunità di uscire di casa senza farsi scoprire dal maltrattante.

Poi ci sono ragioni più profonde, che inducono a interrogarci sulla fruibilità delle procedure d’intervento e sul perché non eravamo affatto preparati ad affrontare questa emergenza.

Secondo le procedure standard, come è noto, una donna che ha subito violenza in casa propria, viene allontanata dall’abitazione e inserita in un percorso protetto di sistemazione presso un’altra dimora. La procedura è ragionata sulla base del fatto che è necessario garantire segretezza al rifugio adibito all’accoglienza e, perciò, la sicurezza dipende dal presupposto fondamentale che il violentatore non conosca il posto in cui si trova l’ex partner. Eppure è lei che paga un duro prezzo, poiché costretta a rinunciare alle quattro mura in cui, intanto, magari ha costruito la sua vita e i suoi ritmi, scanditi, a volte, dalla cura di figli, figlie o parenti anziani.

L’allontanamento dalla propria abitazione, inoltre, impedisce o rende molto più difficile lo svolgimento di mansioni in smart-working, per esempio, per ragioni molto concrete come, magari, l’assenza di un computer e, dunque, riduce o azzera la possibilità di percepire reddito, indispensabile per sopravvivere in modo autonomo e indipendente dall'ex partner.

Tra gli effetti della terribile pandemia che stiamo vivendo si pone per le donne una vera e propria emergenza abitativa ed economica - tornano in mente a tal proposito ancora una volta le preziose pagine di Virginia Woolf sulla "stanza tutta per sé" e le "tre ghinee". In questa emergenza va rintracciato il calo iniziale delle denunce.

Nell’arco di un solo mese, tuttavia, le cose sembrano mutate: muovendoci nella cosiddetta fase due, si registrano gli effetti di un lavoro sinergico che, a differenza dei primi tempi della quarantena, sta coinvolgendo anche le istituzioni a livello nazionale, grazie all’intervento tempestivo delle associazioni e delle reti del circuito antiviolenza. Come diffuso dalla rete DiRe (Donne in rete contro la violenza), a differenza della prima fase dell’epidemia, si registra un incremento del 74,5% di denunce rispetto allo stesso periodo nel 2018. Il dato relativo all’aumento di denunce significa che le donne vittime di violenza domestica stanno intraprendendo percorsi di tutela, facilitati, probabilmente, anche dal fatto che la maggior parte dei centri antiviolenza ha potenziato i canali di contatto, predisponendo, ad esempio, una messaggistica via chat.

Sulla spinta dei centri antiviolenza, il cui lavoro non si è certo chiuso in quarantena, le istituzioni hanno iniziato ad adottare misure e provvedimenti di intervento: i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, sono stati prorogati fino alla conclusione della XVIII legislatura. Sono note anche le iniziative del Dipartimento per le pari opportunità che, per esempio, già da un mese ha lanciato la campagna “Libera puoi”, sottoscritta anche da donne e uomini dello spettacolo, che incoraggia a contattare il 1522 e ha istituito un protocollo di intesa con le farmacie, attivando una sorta di sportello straordinario per denunce.[3]

L’intervento più rilevante è quello del Ministero dell’Interno che, in data 21 marzo 2020, su sollecitazione del Ministero per le Pari Opportunità e Famiglia, ha emesso una circolare indirizzata ai prefetti con un focus proprio sull’accoglienza delle donne vittime di violenza durante il periodo della diffusione della polmonite da Covid19. Un aspetto fondamentale è che, come garantito dalla Ministra Elena Bonetti, sarà il Ministero per le pari opportunità ad assumersi l’onere economico per il sostentamento delle ulteriori sistemazioni abitative, mediante l’utilizzo di risorse già in bilancio. I prefetti possono fare, altresì, ricorso, come previsto dal decreto del 17 marzo 2020, alla requisizione di strutture alberghiere idonee a ospitare le persone in sorveglianza sanitaria.

La ministra ha, di fatto, invitato i prefetti, con il coinvolgimento dei sindaci e degli enti che operano in tali settori, a mettere a disposizione ulteriori sistemazioni abitative, data la saturazione delle case rifugio e dei centri antiviolenza, sul modello del “piano di contingenza” varato dal governo spagnolo. La soluzione, mirata a risolvere soprattutto il problema abitativo, è stata messa in atto anche dalla cooperativa Be free di Roma attraverso la predisposizione, finanziata dalla fondazione Haiku Lugano, delle strutture alberghiere per potenziare l’ospitalità delle donne in pericolo, con il “dovuto supporto” di personale specializzato.

Tenuto conto del fatto che abbandonare la propria casa per le donne può causare numerosi disagi, particolarmente rilevante è stata la direttiva emanata il 20 marzo dal procuratore di Trento che dispone che a lasciare il domicilio sia chi abbia avuto un comportamento violento. Si consideri, in un’ottica di lungo periodo, che la direttiva sarà efficace anche dopo l’emergenza da Covid19 e che, inoltre, ha già trovato applicazione in almeno un caso.[4]

Ancora su scala nazionale, diversi gruppi, associazioni e Ong hanno attivato, in questo periodo di quarantena, nuove reti e nuovi progetti sul contrasto alla violenza di genere in chiave, soprattutto, preventiva, diffondendo linee guida e vademecum per la gestione delle situazioni di pericolo.

Bisognerebbe fare attenzione, però, a non incorrere in frammentazioni d’interventi, come ha spiegato la presidente di DiRe Antonella Veltri nel suo appello alla ministra Bonetti. La fretta di individuare organizzazioni del terzo settore per garantire il personale esperto rischia di sprecare risorse importanti, laddove non vengano rispettati gli standard di qualità previsti per i centri e le case rifugio.

Le ulteriori fonti di finanziamento, previste attualmente in questa seconda fase della pandemia, devono essere gestiti rigorosamente dai centri antiviolenza con l’apporto imprescindibile di personale qualificato e specializzato per occuparsi delle fasi dell’accoglienza e della tutela, non solo per poter offrire maggiori possibilità ricettive, ma anche per ampliare le proprie attività e poter garantire, in primis, gli aiuti necessari per assicurare le opportunità di lavoro e l’autonomia economica delle donne. Diversamente, la discrezionalità delle regioni ad avvalersi di una miriade di associazioni del terzo settore rischia di vanificare lo sforzo di anni di esperienza, di un lavoro che le donne hanno fatto per le donne.

Dunque, la predisposizione di ulteriori luoghi di rifugio per le donne è fondamentale, ma non solo a causa del Covid19. La pandemia, infatti, come sottolineano da più parti le attiviste delle reti antiviolenza, ha semmai acceso un riflettore sui ritardi strutturali dell’intera gestione del percorso di prevenzione e tutela. Ritardi che hanno aggravato la situazione di quelle donne che sono state costrette a restare casa con partner violenti. Si potrebbe pensare che queste violenze siano state un “effetto collaterale del Covid19” ma sappiamo che non è così. La violenza degli uomini sulle donne è un fenomeno strutturale e come tale va trattato. I provvedimenti statali arrivano su spinta dei movimenti femministi e delle reti di sostegno e non da una strategia di politiche pubbliche pianificata e in grado di tener testa a eventi eccezionali, come questo.

Restano ancora delle perplessità sulle modalità di intervento statale: ad esempio, la diffusione della cosiddetta app "Immuni" solleva molti interrogativi critici in materia di tutela della privacy,[5] soprattutto se tale tipo di strumento digitale dovesse consentire il tracciamento dei contatti e degli spostamenti delle donne che stanno uscendo da episodi di violenza familiare. A maggior ragione, diventa urgente preoccuparsi di proteggere i dati con l’anonimato, in modo tale che non sia possibile risalire all’identità dell’utente. 

In conclusione, una nota necessaria sulla narrazione giornalistica: non esistono i “raptus da stress da quarantena”, o “l’aumento di rischio per disagio da convivenza forzata”. Un violento è tale anche prima della chiusura forzata in casa. Il racconto autentico, l’uso delle parole giuste è uno dei tanti, semplici, modi che abbiamo a disposizione per scrollarci di dosso una retorica giustificante e fuorviante, utile solo a replicare attraverso l’insano inganno linguistico, sottili quanto potenti forme di violenza.

Note

[1] Del fenomeno e dei dati dell’incremento degli episodi di violenza domestica durante l’emergenza da covid-19 ne danno efficacemente conto C. Muratori, M.L. Di Tommaso, I segni della crisi sui corpi delle donne su inGenere, 15 aprile 2020

[2] Dati riportati da: M. C. Tringali, I femminicidi in Italia continuano, Il Sole24ore, 7 aprile 2020

[3] Si consideri, peraltro, che uscire di casa per recarsi in un centro antiviolenza integra gli estremi della situazione di necessità di cui all’art. 1, lett. a, del d.p.c.m. dell’11 aprile 2020.  

[4] Notizia del 17 aprile 2020, su Il Fatto QuotianoSi consideri che, sul modello della Procura di Trento, i centri antiviolenza con altre associazioni operanti a Firenze e Pisa hanno inviato una lettera ai rispettivi procuratori chiedendo di adottare la medesima direttiva.

[5] Per un approfondimento si rinvia a: E. Nardelli, I. Corradini, I pericoli del tracciamento digitale dei contatti, Link&Think, 17 aprile 2020