Abbiamo visto un “ministro incinta” e abbiamo letto “il marito dell’assessore”. Eppure la grammatica italiana di norma richiede il genere grammaticale femminile per tutto ciò che ha un referente umano donna. Parola di esperti. E cioè l’Accademia della Crusca, che ha collaborato alla realizzazione della guida “Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano”, curata da Cecilia Robustelli, linguista dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e voluta dall’associazione di giornaliste Gi.U.Li.A.
E dire che in italiano per formare il femminile basta sostituire la desinenza, la ‘a’ al posto della ‘o’. La natura tutta culturale del problema viene a galla con la ‘o’ che continua a rimanere nell’uso comune quando si parla di professioni, incarichi e tanto più cariche di un certo livello. «Il femminile non si usa “perché è cacofonico”, qualcuno dice. Ma è innanzi tutto una mancanza di riconoscimento», ha osservato Laura Boldrini, presidente della camera dei deputati alla presentazione della guida questa mattina a Roma. «Non accettare il femminile per un mestiere fatto da una donna vuol dire considerare quella presenza una cometa, qualcosa di passeggero, una parentesi e basta», ha aggiunto Boldrini. Per cogliere la natura sessista di un certo modo di esprimersi basta ribaltare la questione. «Nella scuola primaria sono senza dubbio di più le maestre, ma non per questo non si usa la parola maestro al maschile», ha osservato la presidente.
Sono passati quasi trenta anni da quando la linguista e insegnante Alma Sabatini aveva redatto le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, eppure siamo ancora al panico davanti alle parole relative a professioni e cariche da declinare al femminile. Perché la lingua può essere sì la prima spia di cambiamenti sociali, ma può «allo stesso tempo resistere al cambiamento per la forza della sua stessa tradizione e per la mancanza di un consenso generalizzato», si legge nella prefazione alla guida di Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia della Crusca. E sembra proprio questo il caso della confusione nell’uso dell’italiano odierno. D’altronde, «in tutte le altre lingue latine, dove è previsto un accordo per il femminile, esistono da tempo le versioni per le donne di qualsiasi mestiere o carica», ha sottolineato Boldrini.
«L’uso sessista della lingua è un problema culturale storicamente determinato», ha osservato l’economista della Sapienza Fiorella Kostoris, «ed è talmente radicato che spesso le stesse donne preferiscono il maschile per evitare di sminuire, agli occhi dei più, la propria conquista dicendo di essere anche una donna», ha osservato Kostoris, «In realtà il problema non è solo la declinazione al femminile di mestieri e professioni ma più in generale dell’uso che si fa del linguaggio nel suo insieme. Per esempio per l’ideazione di contenuti di spessore si parla sempre di “paternità intellettuale” e mai di maternità». E infatti non è solo il linguaggio comune ma anche la comunicazione professionale a essere chiamata in causa. Non è infatti difficile incontrare l'uso del femminile, in particolare del suffisso -essa con un tono dispregiativo ("la presidentessa" invece de "la presidente, ed è per questo che la forma femminile con questo suffisso è da evitare, a parte i casi entrati nell'uso comune come professoressa o studentessa, suggerisce la guida).
«Il linguaggio ha una funzione politica. Un linguaggio che non mette in evidenza la donna, non la fa vedere, è un linguaggio che la nasconde», ha osservato Cecilia Robustelli. Ecco dunque il senso di fare uno sforzo e porsi il problema, specie per chi si occupa di comunicazione. In effetti c’è molta confusione legata anche a questioni morfosintattiche in cui inciampa la comunicazione - ma anche il linguaggio istituzionale – spesso per esigenze di snellezza e leggibilità dei testi. E infatti i dubbi sono tanti: quando il riferimento è a entrambi i sessi, è sempre necessario lo sdoppiamento (il ministro e la ministra)?, e come regolarsi con il maschile inclusivo (i ministri) e l’accordo (sono andati, o sono andati e andate)? La guida offre dei suggerimenti di buon senso, senza dimenticare che appunto spesso nella comunicazione ci sono esigenze di spazio e di snellezza da rispettare, per cui va bene evitare lo sdoppiamento a ogni frase, ma magari all’inizio meglio specificare che si tratta di una ministra e un ministro, e quando si opta per la formula inclusiva, basta aggiungere il nome al cognome per riconoscere la presenza di una donna senza ripetizioni, opzione valida tra l’altro anche per liberarsi dell’articolo determinativo davanti ai nomi femminili: se si vuole aggiungere un’informazione - il genere - senza discriminare, basta citare il nome accanto al cognome. La guida offre una serie di spunti per evitare le generalizzazioni al maschile, come le formule neutre e gli usi impersonali, la forma passiva o i pronomi indefiniti. Alla fine dell'opuscolo si trova a un elenco di nomi declinati sia al maschile che al femminile, per fugare ogni dubbio. (gina pavone)