Politiche

SPECIALE EUROPA. Dal 23 al 26 maggio si vota per il nuovo parlamento europeo, una partita importante che riguarda le donne da vicino, perché vede al centro lo scontro tra due modelli sociali

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Foto: Flickr/Marco Verch

Alle prossime elezioni europee si gioca una partita molto importante per le donne. Lo scontro è tra il modello tradizionale portato avanti dai nuovi sovranisti e quello nordeuropeo – scandinavo, ma anche franco-belga e olandese –  che ha finora influenzato l’Europa in termini di politiche di genere. 

Numeri alla mano, la penisola scandinava ha sempre avuto ottime statistiche quanto a donne occupate, servizi alla persona, partecipazione politica ed economica, oltre alla capacità di influenzare l’agenda politica europea diventando modello anche per paesi con dati meno edificanti – come l’Italia. 

Adesso gli equilibri potrebbero cambiare, e si fa concreto il rischio che quelli che erano stati i modelli non trovino compimento, e che quelli che erano gli stereotipi da combattere si trasformino in un modello per tutti. 

Se non ci fosse stata l’Europa saremmo state molto peggio, non possiamo non riconoscerlo, il ruolo che l’Unione ha svolto a tutela dei diritti di tutti, e delle donne in particolar modo, è stato fondamentale. È l’Europa che esige dai singoli paesi l’istituzione di organi governativi dedicati alla parità tra uomini e donne, che prevede il gender mainstreaming nei fondi strutturali e nella cooperazione transnazionale. 

Certo, sulla carta, i principi di parità (politiche per l’occupazione femminile, congedi, misure antidiscriminatorie) e le indicazioni a perseguirli sono molto più presenti a Bruxelles che in tante capitali europee, in particolare a Roma. 

Se la sola presenza delle istituzioni non basta, queste svolgono la funzione di un termometro che misura l'investimento politico. In Italia l’infrastruttura delle pari opportunità si continua a indebolire. Dopo diversi governi senza Ministero per le pari opportunità, il ‘governo del cambiamento’ ha declassato il Dipartimento per le pari opportunità a delega alle “pari opportunità, politiche giovanili e servizio civile universale”. Una scelta coerente con l’agenda politica di stampo fortemente conservatore di un governo maschile che fa politiche maschiliste, e che in poco tempo si è fatto portavoce di una cultura contraria alle donne e alla loro libertà – come dimostrano i provvedimenti in tema di famiglia, genitorialità, separazioni. 

L’Italia non è sola nel panorama europeo. Ungheria, Polonia, Romania, Ucraina, sono alcuni dei paesi in cui lo spostamento politico e culturale reazionario è già in atto, ma l’ultradestra è arrivata al governo anche in Belgio e Austria. 

C’è un’Europa che si batte per la libertà delle donne, insomma, e una che fa loro la guerra. E l’Europa che fa la guerra alle donne è la stessa che chiude le frontiere, è un’Europa fatta di governi nazionali e nazionalisti, che nutrono sfiducia nel progetto europeo e nelle sue istituzioni, che parlano alle folle prima ancora di parlare alle persone, che contrastano l’immigrazione in nome di una identità nazionale, minacciano i diritti acquisiti e promuovono una retorica della fertilità e della famiglia tradizionale, mentre fanno tagli al welfare.

Dalla Polonia all’Italia, fino alla Spagna, più di recente, la rivolta contro le destre è partita dalle donne, ed è partita dai diritti più che dall’economia. In questo la mobilitazione è stata più difficile proprio perché tante si sentono penalizzate, impoverite, precarizzate. E non trovano protezione né aiuto nelle idee e nelle politiche che attualmente guidano l’Europa. 

L’Europa che vogliamo deve fare di più e meglio. Abbiamo sempre detto che una politica diversa dovrebbe far leva sulle infrastrutture sociali; non ce n’è traccia nello scontro che ha impegnato per due mesi la politica europea, né quella italiana che ha partorito alla fine una manovra inutile e un compromesso che non è altro che un rinvio, e che lascerà ancora meno spazio di azione alle politiche future. 

Uscire dall’Europa non è una soluzione, e il caso Brexit rappresenta un precedente significativo. L’uscita del Regno Unito dall’Ue, come economiste, giornaliste e intellettuali hanno ricordato più volte, rischia di tradursi per il Regno unito in un colpo di frusta contro le donne. Il Women’ Budget Group ha pubblicato uno studio a marzo del 2018 sugli effetti della Brexit: saranno le donne e in particolare le donne delle minoranze etniche a soffrire di più il grave contraccolpo economico e la conseguente gestione della crisi. D’altra parte è quello che abbiamo imparato dall’austerità. Le donne sono infatti la maggioranza dei lavoratori nei settori che entrerebbero in sofferenza, inclusi il commercio e il lavoro domestico e di cura, dal deal di Theresa May sarebbero risultati a rischio un milione di posti di lavoro femminili, figuriamoci senza. 

Saldare le questioni sociali alla difesa dei diritti civili è la sfida che abbiamo di fronte in questa campagna elettorale. 

Indicazioni importanti possono venire da una rilettura delle priorità contenute nel pilastro europeo dei diritti sociali, il cosiddetto Social Pillar, ma per attuarlo correttamente è necessario potenziare le risorse finanziarie disponibili. 

Ad oggi la spesa che proviene dal bilancio comune della Ue, anche se in gran parte ha finalità sociali, copre solo lo 0,3 per cento della spesa complessiva per il sociale finanziata dal bilancio nazionale dei paesi membri. È necessario ripensare la missione affidata ai fondi strutturali e di investimento europei (fondi SIE) e al Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) e far sì che i costi relativi al perseguimento degli obiettivi del Social pillar trovino spazio sia nel bilancio dell'Ue che nei bilanci degli stati membri. 

Intanto, mentre la libertà delle donne, delle persone Lgbt e dei migranti è tristemente diventata il bersaglio della campagna pervasiva delle destre, ci sembra che chi si muove sul fronte opposto faccia fatica a dare voce alle proprie istanze, a riconoscere l’importanza politica delle soggettività in gioco e a pensare anche alle misure economiche che potrebbero migliorare l’inclusione sociale. 

Teniamoci pronte a monitorare i programmi dei principali attori in corsa.