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Da Kabul a Roma, Firenze e Torino: dieci donne afghane fuggite dalla guerra e i loro percorsi di laurea in tre atenei italiani, costellati di difficoltà che vanno oltre i libri e gli esami

Afghane
in Italia

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Foto: Unsplash/judson-moore

Mina, Nilofar, Hasina, Mursal, Juwairia, Sabera, Farzana, Maryam, Nazanin e Sabera sono i nomi di dieci giovani donne afghane atterrate a Roma tra il 23 e il 27 agosto 2021, ora iscritte ai corsi di laurea di tre atenei italiani: l'Università di Roma Tor Vergata, l'Università di Firenze e l'Università di Torino. Come loro, il 15 agosto 2021 sono state evacuate con gli ottantasette voli organizzati dal governo italiano all'indomani dell'insediamento del governo dei Talebani a Kabul altre 4.890 persone con cittadinanza afghana.

Si tratta di un gruppo di persone ritenute particolarmente a rischio in virtù di contatti e collaborazioni avviate con organizzazioni internazionali, con le forze armate dei paesi europei e delle loro famiglie: persone coinvolte nell'attivismo per i diritti umani, che lavorano nel settore del giornalismo, dipendenti dell'Ue e della NATO, componenti dell'esercito, personale delle ambasciate, traduttori e traduttrici. Solo nel 2021, 700.000 profughi si sono aggiunti agli oltre 5 milioni e mezzo di persone costrette a fuggire dalla loro terra: negli ultimi 40 anni, l'Afghanistan è il paese che ha registrato il maggior numero di persone in condizione di protracted displacement (esilio protratto).

L’occupazione sovietica nel 1979, la sua conclusione dieci anni dopo, l'invasione degli Stati Uniti nel 2001, il ventennio di governo sostenuto dalla comunità internazionale, poi interrotto dal colpo di stato dei Talebani, sono tra gli eventi che più hanno determinato l'instabilità del paese e i conseguenti flussi migratori. E ora che le persone arrivate in Italia sono state accolte?

Da quel 15 agosto le vite delle dieci donne nominate all'inizio sono cambiate radicalmente. Erano iscritte all'università o avevano terminato gli studi superiori e stavano lavorando: diverse di loro erano insegnanti; c'era poi un'infermiera, una funzionaria della Banca Centrale del paese, una traduttrice, una giornalista, un'assistente alla ricerca. Alcune sognavano di andare all'estero per continuare a specializzarsi, altre lo stavano facendo. Tutte si stavano impegnando quotidianamente per costruire un paese più inclusivo, giusto, libero da discriminazioni. Al centro delle loro narrazioni, il focus sull'istruzione.

Mina, ad esempio, è nata nel 2001, agli albori di quel graduale processo di apertura del sistema educativo nazionale durato vent'anni, poi improvvisamente interrotto. In quegli anni il tasso di alfabetizzazione femminile nel paese era raddoppiato, così come il numero di insegnanti donne. La parola “educazione” aveva acquisito nuovi significati, se non altro nell’immaginario, all'insegna dell'emancipazione e con un carico di speranza. Queste donne, cresciute a Kabul in famiglie che hanno investito energie e denaro nella loro istruzione, hanno creduto nell'uguaglianza di genere e nell'accesso allo studio come fondamentale pilastro per la costruzione di un futuro migliore.

Da un giorno all'altro, però, il tempo è stato spezzato, e le ragazze si sono trovate nella condizione di dover – e con la successiva fortuna di poter – cambiare tutto. Di quei giorni raccontano la paura, la disperazione, la confusione, la concitazione, le destinazioni ignote della fuga, la mancanza di aspettative, con l'unica volontà di salvare se stesse e i propri affetti.

Arrivate a Roma, sole o con le famiglie, sono state ospitate nei sistemi di accoglienza decentrati sul territorio, da Gioia del Colle a Luserna San Giovanni. Il tempo ha ricominciato a scorrere lento, fino a esplodere nell'incredulità e nell'entusiasmo alla notizia della pubblicazione del progetto Culture builds the future: 10 borse di studio per 10 donne afghane e dell'avvenuta selezione della loro candidatura, tra le più di cinquanta pervenute. 

Il programma consiste nell'erogazione di dieci borse di studio triennali per sostenere gli studi universitari, ed è coordinato da Fondazione Emmanuel-Don Francesco Tarantini per le Migrazioni e il Sud del Mondo, un'organizzazione non governativa operativa a Lecce con trent'anni di esperienza nel settore dell'accoglienza e della mediazione interculturale.

Mossa dalla volontà di fornire risposte rigenerative ai bisogni delle persone che arrivano dall'Afghanistan e di dare continuità al pensiero intellettuale, valoriale, creativo, politico che stava prendendo forma nel paese in ricostruzione, l'organizzazione ha potuto dar vita al progetto grazie all'intesa con Campus X, che ha messo a disposizione dieci stanze negli studentati di Roma, Firenze e Torinoal supporto di sei fondazioni private (Fondazione Compagnia San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Fondazione Ernst&Young, Fondazione Assistance International, Fondazione Riva).

L'accesso all'istruzione superiore rappresenta per queste donne la possibilità di (ri)costruire uno spazio di pace – mentale e fisica; di investire tempo ed energie in un'attività che permetta loro di ricentrarsi dopo la perdita improvvisa dei punti di riferimento; di potersi nuovamente visualizzare nel futuro in relazione alle proprie propensioni, aspirazioni, desideri.

Eppure, beneficiare appieno dell'accesso all'università è un processo complesso, soprattutto quando si tratta di studenti migranti. Le maggiori difficoltà sono sintetizzate dalle parole di Hasina: “Non si tratta solo dell'università, ma della situazione generale che sto vivendo in questo momento”.

Infatti, la comune manifestazione di condizioni psicofisiche precarie è strettamente collegata a quella della profonda solitudine, causata in primis dalla lontananza e dalla situazione d’instabilità delle famiglie di origine. A quest'assenza se ne somma un'altra, quella di relazioni e legami solidi, anche all'interno delle aule degli atenei, a causa della mancanza di tempo, del faticoso approccio a una lingua differente, della diversità dei nuovi stili di vita. Un altro fattore che caratterizza le comuni esperienze è l'attesa, da cui deriva un senso di incertezza e sospensione, che permea più ambiti: la situazione legale e l'ottenimento dei documenti, il riconoscimento dei titoli accademici, l'ammissione ai corsi di studio.

La sofferenza viene esacerbata dalla paura che gli sforzi e le attese risultino poi vane, vista la scarsità di opportunità lavorative e di crescita in un paese come l'Italia. Il quadro viene ulteriormente complicato dalla barriera linguistica e dalla complessità del sistema universitario italiano, molto diverso da quello a cui erano abituate e più impegnativo sotto il profilo dei contenuti e dei metodi di insegnamento.

Infine, le donne percepiscono una sorta di “innaturalezza dei tempi e delle tempistiche”: dover lasciare il paese d'origine all'improvviso, essere tenute a imparare una nuova lingua in così breve tempo, ricevere l’opportunità inaspettata di poter proseguire gli studi e doversi trasferire dalle sistemazioni di accoglienza ai campus universitari sono tutti eventi che si sono susseguiti in fretta, lasciando poco spazio all'elaborazione e alla riflessione.

Con il supporto di Fondazione Emmanuel e delle figure di riferimento, alcuni nodi sono stati allentati, altri sciolti, su altri ancora si continua a lavorare. Quello che ci si auspica, alla luce delle difficoltà emerse, è che le università, insieme ai territori, creino le condizioni per favorire pieno accesso, in tutte le sue dimensioni, ai e alle future studenti, migranti e non, affinché possano realmente promuovere l'autonomia e nutrire gli immaginari.

E allora il sottotitolo di questo pezzo potrà essere: “da Kabul, passando per Roma, Firenze, Torino, verso le mete che si desidera realizzare: i percorsi di vita di dieci donne afghane”.