Dati

Le ricercatrici e i ricercatori del Progetto ViVa (Irpps-Cnr) presentano i primi risultati dell’indagine I centri antiviolenza ai tempi del coronavirus, che nel mese di aprile ha coinvolto i centri antiviolenza attivi su tutto il territorio italiano

I centri antiviolenza ai
tempi del coronavirus

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Foto: Unsplash/ Sarah Kilian

Si è conclusa il 4 maggio, a circa un mese dal suo avvio, l’instant survey “I centri antiviolenza ai tempi del coronavirus” curata dalle ricercatrici e dai ricercatori del Progetto ViVa e rivolta ai Centri antiviolenza attivi sul territorio italiano[1].

L’indagine è nata dalla consapevolezza che le restrizioni e le misure di contenimento previste a causa dell’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 hanno acuito i rischi per le donne che vivono in contesti familiari violenti e per le/i loro figlie/i, ponendo ai centri antiviolenza nuove criticità e sfide a cui essi hanno risposto mettendo in campo strategie rinnovate.

Criticità rilevate, strategie messe in campo e richieste alle istituzioni sono i tre assi principali lungo i quali l’indagine si è articolata, con la finalità di restituire attraverso i dati e la loro analisi una lettura della situazione attuale, ma anche di mettere a disposizione di policy maker e centri antiviolenza strumenti di analisi ed intervento a più lungo termine.

L’indagine ha registrato un tasso di copertura di circa il 70%, ottenendo risposta al questionario da 235 centri antiviolenza su un totale di 335 contattati. Dei centri che hanno risposto al questionario, 7 hanno comunicato di aver interrotto le attività prima dell’emergenza e 1 ha dichiarato di averla sospesa per cause legate all’emergenza sanitaria[2].

Ciò che emerge in maniera evidente dalla lettura dei dati è in primo luogo il fatto che l’emergenza sanitaria ha messo i centri antiviolenza di fronte alla necessità di rivedere in modo sostanziale le loro modalità operative: l’89% dei centri intervistati ha infatti lavorato esclusivamente o prevalentemente in remoto, privilegiando il contatto telefonico con le donne, ma avvalendosi massicciamente anche di strumenti relativamente nuovi e inusuali, almeno nella pratica della “relazione tra donne”, quali i software di videochiamata e le comunicazioni tramite e-mail, con le connesse difficoltà nella fornitura di adeguate strumentazioni alle operatrici (rilevata dal 37% dei centri). 

Un ulteriore, significativo, elemento di “discontinuità” è costituito dal numero delle donne che per la prima volta si sono messe in contatto con il centro antiviolenza: il 76% dei centri afferma infatti di aver rilevato una sensibile diminuzione dei nuovi contatti, che si sono complessivamente dimezzati, passando da una media di 5,4 nuovi contatti a settimana per centro nel periodo precedente all’emergenza sanitaria a 2,8 per centro durante il periodo di vigenza delle misure di contenimento[3].

Per quanto riguarda le richieste di sostegno espresse dalle donne (considerando complessivamente, in questo caso, i nuovi contatti e le donne che avevano già iniziato un percorso di uscita dalla violenza), l’ascolto telefonico, la consulenza psicologica e la consulenza ed assistenza legale si caratterizzano anche durante l’emergenza come il “cuore” dell’azione di supporto dei centri, i quali hanno dichiarato di aver ricevuto per tali prestazioni richieste in numero maggiore o uguale al passato rispettivamente nel 71%, 62% e 55% dei casi.

Emerge, poi, una richiesta nuova e forte da parte delle donne che si rivolgono ai centri di un supporto economico immediato, dando voce a un “bisogno” di fronte al quale gli strumenti diretti di intervento del centro antiviolenza sono limitati e che si traduce dunque in una loro richiesta di intervento rivolta alle istituzioni, ritenuta prioritaria del 56% dei centri.

L’ipotesi, da verificare con ulteriori analisi dei dati e attraverso il confronto con le operatrici dei centri antiviolenza, è quella di un sensibile prevalere nel periodo del cosiddetto lockdown di esigenze immediate (in primo luogo economiche) a fronte di un “rallentamento” dei percorsi più strutturati di uscita dalla violenza.

I dati parlano infatti anche di una sensibile flessione delle richieste non solo di colloqui di accoglienza, ma anche e soprattutto di quelle di sostegno all’autonomia abitativa e lavorativa e dei servizi specifici per le donne migranti e/o richiedenti asilo[4], per le quali sono rispettivamente il 71%, il 76% e l’80% i centri che hanno dichiarato una richiesta minore rispetto al passato o addirittura nulla.

In diminuzione anche la richiesta di orientamento ai servizi sul territorio. 

È d’altra parta stata rilevata una difficoltà reale dei centri nel mantenersi in relazione operativa con la Rete Territoriale Antiviolenza e con gli altri servizi territoriali (in particolare con Procure e Tribunali, sia ordinari che minorili, ospedali e strutture sanitarie), a fronte della quale, tuttavia, è interessante osservare la forte tenuta dei rapporti con i servizi sociali comunali, le forze dell’ordine e le questure oltre che con gli altri “servizi specializzati” (centri antiviolenza e case rifugio o strutture di ospitalità, per i quali le relazioni sono rimaste invariate o hanno addirittura registrato un’intensificazione rispettivamente nell’81 e nel 72% dei casi).

Il maggiore coordinamento tra i soggetti attivi nel contrasto alla violenza è comunque sentito come una priorità per i centri antiviolenza, oltre il 42% dei quali include un’azione in questa direzione tra le sue richieste alle istituzioni.

L’accoglienza in emergenza si conferma come “area problematica” tra le prestazioni dei centri antiviolenza e ad essa si affianca, alla luce delle nuove esigenze sanitarie di distanziamento sociale, anche l’ospitalità in alloggi sicuri: sono rispettivamente il 58% e il 42% del totale i centri che hanno avuto difficoltà nel garantirle, con la conseguente necessità o di individuare tra quelle già in uso strutture (o locali) da dedicare ai nuovi inserimenti o di prevedere la quarantena per le donne presso strutture alberghiere (o simili) e appartamenti appositamente presi in locazione.

Inoltre la “messa in sicurezza delle donne” ha richiesto al 35% dei centri antiviolenza l’attivazione di nuove procedure, diverse da quelle solitamente utilizzate per l’allontanamento dall’abitazione e/o il collocamento presso strutture protette.

Alla luce di questi dati, non stupisce che tra le richieste alle istituzioni il 64% delle strutture intervistate individui prioritariamente l’assegnazione di maggiori risorse economiche ai centri antiviolenza e alle strutture di ospitalità e il 36% l’incremento delle strutture di ospitalità attive sul territorio. 

Infine, rispetto ai principali interventi promossi a livello centrale per far fronte alle maggiori difficoltà poste dal periodo di emergenza alle donne vittime di violenza e alle operatrici, il 67% dei centri ha espresso il proprio gradimento per la campagna social “Libera puoi”, promossa dal Dipartimento per le pari opportunità con l’obiettivo di pubblicizzare il numero di pubblica utilità 1522 e far conoscere l’ App 1522, che consente alle donne di chattare con le operatrici e chiedere aiuto e informazioni in sicurezza, senza correre il rischio di essere ascoltate dai loro aggressori.

Simile livello di gradimento ha ottenuto la misura prevista dalla Circolare 21 marzo 2020 del Ministero dell’Interno, in sinergia con la ministra per le Pari opportunità e la famiglia, rivolta a tutti i prefetti per l’individuazione di nuove soluzioni alloggiative, anche di carattere temporaneo, che consentano di offrire l’indispensabile ospitalità alle donne vittime di violenza che, per motivi sanitari, non possono trovare accoglienza nei centri antiviolenza e nelle case rifugio, anche se alcuni centri hanno sottolineato una non completa aderenza delle azioni messe realmente in campo rispetto a quanto prescritto.

Salgono al 71%, infine, i centri che hanno espresso soddisfazione per le misure previste dalla circolare 27 marzo 2020 del Ministro dell’Interno, finalizzata a sensibilizzare le forze dell’ordine sulle problematiche della violenza domestica e per favorire l’emersione delle richieste di aiuto delle donne vittime, attraverso tutti gli strumenti normativi, procedimentali e strumentali disponibili.

Complessivamente, quello che emerge dalla rilevazione è un sistema di intervento a supporto delle donne vittime di violenza e delle/dei loro figlie/figli che, sia pure in modo eterogeneo, ha saputo articolare in un tempo complessivamente breve risposte nuove ed efficaci ai bisogni delle donne, conciliando la continuità del supporto con le esigenze di tutela della salute.

Le tempistiche serrate, la gravità dell’emergenza sanitaria e l’eccezionalità delle misure di contenimento adottate hanno reso per i centri antiviolenza la formulazione di tali risposte spesso difficile ed onerosa, in termini sia organizzativi che economici.

Da qui l’esigenza di un maggiore e più articolato supporto da parte delle istituzioni, chiamate ad intervenire a livelli diversi (economico, politico, legislativo, ecc.) e la rinnovata centralità di un approccio sinergico, strutturale e multy-agency alla violenza maschile contro le donne. 

Note

[1] L’universo di riferimento della rilevazione è stato individuato a partire dalla mappatura realizzata a seguito dell’indagine Istat-Cnr condotta nel 2018 e riferita all’anno 2017. La mappatura è inclusa nel Rapporto I servizi specialistici e generali a supporto delle vittime di violenza. Mappature e note di accompagnamento

[2] Le percentuali presentate di seguito sono dunque calcolate sul totale dei 227 centri che hanno dichiarato di essere attivi.

[3] Per quanto riguarda, invece, i rapporti con le donne che avevano iniziato un percorso di uscita dalla violenza prima dell’emergenza sanitaria, il 39% dei centri ha dichiarato che essi sono diminuiti, il 19% che sono aumentati, mentre il 42% dei centri afferma che sono rimasti invariati.

[4] Maggiori informazioni su punti di forza e criticità delle prestazioni fornite dai centri antiviolenza, riferite all’anno 2017, sono disponibili in Progetto ViVa-Istat, I centri antiviolenza. Le rilevazioni Istat e Cnr, pp.1-2.