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Sono sempre più le donne senza figli, le coppie che non anelano alla genitorialità aumentano. Nel paese delle "culle vuote", e che più di altri soffre il gap tra numero di figli voluti e fecondità realizzata, chi si prenderà cura di rimettere al centro il desiderio?

Chi si prende cura del
desiderio di maternità

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Foto: Unsplash/ Kirill Balobanov

L’Italia è uno dei paesi al mondo in cui nascono meno bambini per donna. L’andamento della fecondità, che mostrava timidi segni di ripresa agli inizi degli anni 2000, ha cominciato nuovamente a calare in seguito alla grande recessione prima e all’epidemia di Covid poi, e si attesta sotto la soglia di 1,3 ormai dal 2018.

Tra chi fa demografia si parla di “fecondità più bassa tra le basse”. L’età media al primo parto è superiore ormai ai 31 anni, e siamo tra i paesi europei con la più alta percentuale di primi nati da madri quarantenni. Questa condizione di bassa fecondità non è attribuibile a un’unica causa, ma è la somma di diversi fattori. Tra questi, gioca un ruolo sicuramente di rilievo l’incertezza economica che caratterizza il mercato del lavoro nazionale e lunga parte della vita lavorativa delle generazioni più giovani.

Il rapporto diretto tra partecipazione femminile al mercato del lavoro e tassi di fecondità è ormai consolidato: il nostro paese è tra quelli europei in cui le donne sono meno presenti nel mondo del lavoro retribuito. La precarietà investe la vita di potenziali genitori e li accompagna per un lungo periodo. Gli stipendi spesso non sono sufficienti a garantire una serenità economica. Ma ovviamente sarebbe riduttivo pensare che questo, intendendo con questo la sfera prettamente economica, basti a giustificare la nascita di pochi bambini.

È difficile pensare che le tante dimensioni di cui si compone la vita non siano tra loro interdipendenti. Sono molte, quindi, le concause che spiegano la bassa fecondità, alcune di tipo strutturale, altre di tipo culturale, tutte tra loro intrecciate. Tra quelle di tipo strutturale, è facile pensare alla carenza di servizi per la prima infanzia. La copertura di questi servizi, secondo i dati più recenti dell’Istat è del 26%: questo significa che solo un quarto dei bambini italiani nella fascia d’età 0-3 anni ha un luogo di cura alternativo alla famiglia.

Non è solo questa la fase cruciale della vita dei figli in cui ci sono difficoltà nel prendersene cura, in generale gli orari scolastici, i disservizi che caratterizzano il sistema – a oggi, fine settembre, ad esempio, sono poche le scuole ricominciate a pieno regime e molte le famiglie che lottano per incastrare tempi dei figli e tempi del lavoro –, la lunga sospensione estiva, sono tutti ambiti da tenere in considerazione quando si pensa di mettere al mondo un figlio.

Dal punto di vista del far coesistere lavoro retribuito e lavoro di cura, poi, la questione strutturale abbraccia ancor di più quella culturale. La cura in Italia è ancora una questione prettamente femminile. Sono le donne a prendersi cura della casa e della famiglia molto più di quanto facciano gli uomini e questo avviene in maniera ancora più marcata quando nelle famiglie ci sono dei figli. Il 51% del campione italiano dell’Eurobarometro 2014-2017 pensa che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia.

Se guardiamo al tempo dedicato alla cura l'Italia è il paese in Europa in cui lo squilibrio nel tempo a essa dedicato tra uomini e donne, secondo i dati Eurostat, è il più alto. Insieme alle donne rumene le italiane sono quelle che vi dedicano più tempo, gli uomini italiani, al contrario, non sono i più coinvolti.

Altri indicatori ci parlano di uno squilibrio che intreccia questione strutturale e questione culturale: da anni i dati del Ministero e dell’Ispettorato nazionale del lavoro mostrano che le madri più che i padri rinunciano alla partecipazione al mercato del lavoro retribuito all’arrivo di un figlio per l’impossibilità di “conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole”. 

Il congedo parentale dei padri è recentissimo, essendo stato introdotto solo nel 2000 e ancora poco diffuso. Il congedo obbligatorio di paternità dura solo pochi giorni. Tutte insieme queste dimensioni contribuiscono a una riduzione della fecondità. La complessità di fronte a cui si trovano le donne quando decidono di avere un figlio, o dopo aver avuto il primo figlio, è tale da rinunciare a una nuova nascita. A tutto questo si aggiunge la difficoltà di arrivare alla gravidanza in un’età più vicina alla menopausa che al menarca, con le conseguenti problematicità legate alla fertilità, e i percorsi alternativi complessi e costosi. Ne esce un quadro di difficile gestione.

Spesso sentiamo dire che risollevare la fecondità è importante, ma l’importanza viene giustificata alla luce del sistema pensionistico italiano. In un paese che invecchia, in cui la speranza di vita cresce sempre di più e la coorte dei baby boomer, la più ampia tra le coorti, inizia a diventare anziana, avere molti figli significa avere molti potenziali lavoratori in grado di sostenere, tramite il versamento dei contributi, il sistema nazionale dei servizi. Una prospettiva che difficilmente sarà convincente per le donne in età feconda.

In un paese che strutturalmente e culturalmente non si fa culla avvolgente delle nuove nascite, immolarsi per il bene comune, che già è un concetto distante dal pensare individuale o di coppia contemporaneo, sembra una prospettiva totalmente irrealistica. Eppure, l’aumento della fecondità rimane un obiettivo auspicabile.

A fronte del crescente gruppo di donne e uomini che non anelano alla genitorialità, e che si definiscono childfree non prevedendola tra i loro obiettivi di vita – per i quali andrebbe comunque costruito un sistema culturale accettante –  ci sono molte coppie, e molte persone che vedono in questo basso numero di figli la mancata realizzazione del proprio desiderio di genitorialità.

Il nostro paese, infatti, più di altri soffre del cosiddetto fertility gap, la differenza tra il numero di figli desiderati e la fecondità realizzata. Il numero di figli desiderati si attesta in molti contesti intorno ai due figli per donna, e l’Italia non fa eccezione. Circa la metà degli italiani desidera proprio due figli, mentre è ridotta, intorno al 6%, la quota di quanti desiderano il figlio unico.

E invece, nella realtà sono sempre più le donne senza figli, che nella coorte delle nate negli anni ’70 superano il 20%, calano i primi figli, oltre a diminuire i secondi nati.

Rimettere al primo posto il desiderio significa, di fatto, considerare preminenti sia la questione strutturale sia quella culturale. Avere uno stato, che, al di là dei recenti tentativi, come l’assegno unico, o l’estensione dei giorni di paternità obbligatoria, si prenda cura del desiderio di genitorialità, dei servizi alle famiglie, delle condizioni lavorative, dovrebbe essere prioritario.

Oggi alle 15.00 Alessandra Minello sarà al Festival di Internazionale a Ferrara per parlare di denatalità e femminismo insieme a Maddalena Vianello e Barbara Leda Kenny (l'appuntamento è all'Ex Teatro Verdi di Ferrara)

Articolo pubblicato in collaborazione con Il Fatto Quotidiano