Nell'Italia dei piccoli paesi e dei comuni più lontani dai servizi di base, le donne sono allo stesso tempo essenziali e invisibili, schiacciate sul lavoro di cura e sussistenza non retribuito. A pesare sono antichi stereotipi e la mancanza di infrastrutture. Per contrastare l'abbandono dei territori e immaginare soluzioni sostenibili è necessario un cambio di paradigma

I territori, si sa, condizionano fortemente la vita delle donne. La dimensione territoriale è infatti quella in cui si realizzano in concreto le politiche di welfare. È sul territorio che le donne fanno i conti con la distribuzione diseguale del lavoro di cura: nella famiglia e nella comunità.
Non a caso, i dati sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia mostrano ingenti differenze a seconda del territorio di riferimento: la distribuzione comunale del divario di genere nel tasso di occupazione indica che nelle regioni del Sud si concentrano comuni dove il divario supera i 30 punti percentuali, laddove nel Centro-Nord resta fermo a tassi molto più ridotti (tra 3 e 18).
Ma il divario Nord-Sud non esaurisce il tema delle diseguaglianze territoriali: scavando nei territori, ci accorgiamo che esiste un ulteriore e più nascosto divario, che impatta pesantemente sulla vita delle donne, condizionando dinamiche demografiche, trend di de-popolamento e scelte in tema di allocazione dei servizi pubblici: si tratta del divario fra aree urbane e interne, a lungo pretermesso dal dibattito pubblico.
La disattenzione delle politiche pubbliche per le aree interne (ovvero quelle zone che sono distanti da alcuni servizi essenziali per la vita delle persone che vi risiedono) ha origini lontane, rintracciabili in quel processo di inurbamento intorno ai grandi centri produttivi che è stato narrato dalla letteratura e dal cinema (La vita agra di Luciano Bianciardi è nel ricordo di molti), prima ancora di tradursi nei grandi progetti di investimento del secondo dopoguerra (la Cassa del Mezzogiorno in primis). L’abbandono dei paesi è sembrato a tutti il naturale prezzo da pagare per l’ammodernamento del paese.
È così che si è ereditato, fino all’epoca più recente, un approccio al governo della spesa pubblica guidato da criteri di efficienza complessiva – imperniato quindi su logiche di risparmio in una prospettiva nazionale – e sostanzialmente sordo alla questione dei divari territoriali. Una sordità che si è approfondita con riferimento alla diseguaglianza tra centri e aree interne.
Si pensi, per fare un esempio vicino nel tempo, alle cosiddette politiche di razionalizzazione che hanno accompagnato l’austerity degli ultimi decenni, dove si è proceduto, senza troppe preoccupazioni, a tagliare la spesa per i servizi sottodimensionati (attraverso l’accorpamento o la soppressione dei centri di fornitura) senza alcuna attenzione all’impatto su zone già depopolate.
Che impatto hanno avuto queste politiche sulla vita delle donne? In che modo queste scelte hanno conformato le decisioni delle famiglie? E con quali effetti sulle dinamiche demografiche?
La questione ha certamente una dimensione nazionale, come è stato correttamente messo a fuoco con la Strategia nazionale per le aree interne (Snai), avviata nel biennio 2012-2014. Il ribaltamento dell’approccio verso le aree marginalizzate si deve alla visione lungimirante di Fabrizio Barca, all’epoca Ministro della coesione territoriale: per la prima volta, il tema del divario civile relativo ai servizi di cittadinanza (in primis sanità, scuola, mobilità) è stato ritenuto prioritario rispetto a quello dell’investimento sulle attività economiche.
La strategia ha consentito pertanto di avviare un processo di riconoscimento delle aree interne e delle loro specificità (grazie anche all’identificazione dal basso delle esigenze dei territori con il metodo place-based), che ha finalmente imposto all'attenzione pubblica la condizione delle aree interne.
Eppure, nonostante questo cambio di rotta e il rinnovo della programmazione territoriale per il periodo 2021-2027, molti elementi restano ancora sul tappeto, e il processo di spopolamento delle aree interne continua ad allarmare. Di recente, si è addirittura utilizzata l’espressione – segno di una resa che non è né accettabile, né possibile – di “spopolamento irreversibile” (ci si riferisce alla linea evocata dal nuovo Piano strategico nazionale delle aree interne, sulla scia di una documentazione prodotta dal Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro).
Del resto, molte delle potenzialità dei territori marginali restano inespresse nelle politiche, come dimostra lo scarso accesso alle risorse europee da parte dei comuni ultra-periferici. Un dato, questo, che non sorprende, considerato il metodo del finanziamento – che, procedendo per bandi, richiede massa critica e piena strutturazione tecnica anche solo per presentare una candidatura. Purtroppo i piccoli comuni, a maggior ragione dopo la lunga stagione di dimagrimento degli organici, scarseggiano sia dell’una che dell’altra.
E le donne? Nell’Italia dei piccoli paesi, le donne sono soggetti invisibili.
La carenza di infrastrutture materiali, economiche e sociali che affligge queste zone grava infatti in proporzione maggiore sulla popolazione femminile. Pensiamo a scuola e sanità. La prima incide direttamente sulla vita delle donne, sia perché la presenza femminile tra chi svolge il lavoro di insegnante è maggiore (sono donne 8 docenti su 10, secondo gli ultimi dati del Ministero dell'Istruzione e del Merito), sia perché la cura di figli e figlie (ancora sproporzionata a loro carico) subisce gli effetti di scuole lontane, accorpate, con didattica pluriclasse (a tacer poi della carenza strutturale, nelle aree interne, di servizi per la fascia 0-6 anni).
Quanto alla sanità, nella sua forma pura o in quella più ampia dei servizi medico-assistenziali, non è una provocazione sostenere che la carenza di servizi di prossimità – unita al fatto che l’indice di vecchiaia è più alto nelle aree interne – è sostenibile, nell’economia sociale complessiva, solo perché il lavoro di cura grava, di fatto, sulle spalle delle donne.
È peraltro ormai un dato acquisito che sulla carenza di servizi di welfare supplisce, in Italia, il cosiddetto "welfare famigliare", ovvero quella rete di assistenza informale, prestata da caregiver interni alla famiglia, che sono per la maggior parte donne (figlie, madri, sorelle, nuore) e svolgono lavoro non retribuito. Tra l’altro, la questione non può che peggiorare negli anni, visto il tasso di invecchiamento della popolazione e il ritardo del nostro paese nella legislazione sulla non autosufficienza (non colmato neppure dalla cosiddetta Legge anziani, n. 33/2023).
Del resto, la narrazione delle aree interne è fatta in gran parte da uomini, ed è a misura di uomini la pianificazione dei paesi e delle aree rurali, stratificatasi nei secoli seguendo le orme di una tradizione che affonda le sue radici nella cultura patriarcale. Se la “città femminista” resta ancora un’utopia, ancora più lontana appare una rigenerazione territoriale delle aree interne che ponga le donne al centro del sistema.
Per descrivere la condizione delle donne nelle aree interne si può utilizzare il concetto di “intersezionalità”, che apre un faro sul reciproco incrocio delle diseguaglianze. Si può dire, dunque, che la condizione di diseguaglianza in cui si trovano le donne in alcuni ambiti, si acuisce per quelle che vivono nelle aree interne. Il tutto senza considerare che, in molti casi, proprio nei piccoli paesi ristagna una mentalità ostile allo sviluppo di una cultura attenta all’eguaglianza di genere. È purtroppo nel ricordo di tutti la tragica vicenda di Agitu Ideo Gudeta, la pastora etiope-trentina simbolo della rigenerazione rurale brutalmente violentata e uccisa nella sua fattoria il 29 dicembre 2020.
Eppure, le donne sono spesso protagoniste di forme di radicamento, ritorno o “restanza” nelle aree interne. Non a caso se ne parla sempre di più: a marzo 2025 sono state dedicate al tema due iniziative – il seminario Donne e aree interne dell’Associazione Riabitare l’Italia e il XX Convegno aree fragili.
L’ambito rurale è certamente quello più rappresentativo: in questi anni, nei settori tradizionali dell’agricoltura, nella pastorizia, e nella filiera della trasformazione agroalimentare, si è assistito a un rilancio della presenza femminile. Altra sfera significativa è il turismo, dove si sperimentano soluzioni innovative come slow tourism, semi-residenzialità, nomadismo digitale, a volte favorite dall’imprenditorialità femminile.
Ancora più interessanti sono le acquisizioni della più recente ricerca demografica, che dimostra come lo spopolamento dei paesi risulti inferiore laddove sono più alti i tassi di occupazione femminile: in altre parole, il radicamento delle donne – se supportato da un posto di lavoro – costituisce un argine all’abbandono dei territori.
Ancora una volta, sono i numeri a dimostrarci che da un’equa distribuzione delle opportunità di lavoro tra uomini e donne discendono altri equilibri sociali (quello demografico in primis) e che le donne, liberate, sono una leva fondamentale per lo sviluppo, a partire da quello territoriale.
È però ancora troppo scarsa l’attenzione per i problemi delle aree interne, dove la perdita di popolazione, in caduta libera, rischia di lasciare in stato di vero e proprio abbandono più della metà del suolo nazionale (per la precisione il 60%). E ancora più lontana è la consapevolezza della centralità, in questo scenario, del ruolo delle donne.
Ma la questione non è più rinviabile, e non solo per le aree interne, ma per concepire un equilibrio sostenibile tra dinamiche della popolazione, cura del territorio, valorizzazione delle risorse ambientali. Per immaginare, in sintesi, che anche le scelte su dove e come abitare possano essere prese all’insegna della diversità.
Riferimenti
F. Benassi, C. Tomassini, C. Lallo, The Local Regression Approach as a Tool to Improve Place-Based Policies: The Case of Molise (Southern Italy), in Spat Demogr, 12, 2, 2024.
I. Canfora, V. Leccese (a cura di), Le donne in agricoltura. Imprese femminili e lavoratrici nel quadro normativo italiano ed europeo, Torino, Giappichelli, 2023.
K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in The University of Chicago Legal Forum, 41, 1989, pp. 139.
L. Kern, La città femminista, Roma, Treccani, 2021.
A. Rizzo, I paesi invisibili, Roma, Il Saggiatore, 2022.