Linguaggi

L’estate di inGenere è ricca di consigli di lettura, visioni e racconti. Le abbiamo chiamate "playlist". In questa, Claudia Bruno ci introduce a un percorso di voci che hanno saputo sfidare il concetto di norma passando per la scrittura

Voci fuori
norma

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Foto: Unsplash/ Irene Giunta

Una voce è uno sguardo sul mondo che risuona, ma è pur sempre composta di frasi. E le frasi possono diventare un’ossessione, il tarlo ininterrotto che una parola dopo l’altra ci trascina oltre gli orizzonti ordinari, dietro le soglie della comprensione. Un movimento denso, almeno quanto il timore sociale che genera. Forse l’unico in grado di farci vedere le cose per quelle che sono, di nominarle con occhi trasparenti.

Oggi la norma è una voce che dice come ci si aspetta che dica, che racconta una storia possibilmente sparendo. Nel secolo dei corsi di dizione e delle scuole di scrittura hanno tutti la stessa voce e la voce è sempre al servizio di qualcos’altro. Se c’è una voce, è una presenza invadente. Che turba, che non rassicura. Che va contenuta. La voce di oggi deve intrattenere soprattutto, non deve togliere spazio all’azione, non deve rischiare di generare pensiero.

Eppure ci sono voci a-normali, imprevedibili e folli, che più di altre ci parlano. Che sanno dirci cose che altre voci non sanno. Sono voci indispensabili e vivide, necessarie. Che sanno brillare. Che in questo farsi lucide, nel loro stesso germogliare, disubbidiscono al dovere a tutti i costi risultare compiacenti.

“Trafficare con le parole mi tiene sveglia” scrive Anne Sexton ne Il libro della follia appena pubblicato da La Nave di Teseo (a cura di Rosaria Lo Russo, testo originale a fronte), prima traduzione integrale in italiano del The Book of Folly che la scrittrice americana diede alle stampe nel 1972. "La mia penna perde parole come aborti" continua qualche pagina dopo col suo tono più ampio di una raccolta di versi, un discorso poetico. "Lancio parole nell'aria e tornano al balzo come palle da squash. Eppure c'è silenzio. Sempre silenzio. Come un'enorme bocca di neonato". Potremmo scambiarlo per il diario psichedelico di un’aspirante suicida, se non fosse che tra le righe lascia intravedere qualcos’altro.

“Ho così tanti capelli e tanto miele han risucchiato che devo lavarli a ciocche” racconta la protagonista di una delle tre storie contenute nel volume, un'eremita contemporanea. La ragazza vive lontana dal mondo in una stanza di pietra. Una cupola “alta cinque piani” dalle cui finestre cala le sue lunghissime ciocche per farle asciugare, attirando ogni giorno folle di ammiratori. “Spazzola, spazzola”, ripete con un filo d’ironia per tutto il corso del racconto. “La stanza diventa umidiccia come una grotta marina, non si asciuga mai. Sto a piedi nudi e in un andirivieni di calate nel lavandino sondo il mistero. Le parti già lavate stanno arrotolate per terra e aspettano pazientemente. È come cercare di lavare le alghe. È scomodo e complicato ma è il lavoro che faccio nella vita”.

“Che siamo matti, o normali, o normaloidi, le voci ci abitano, è inutile ignorarle” Chandra Livia Candiani ne parla nell’episodio intitolato Voce del podcast Il mondo come meditazione, prodotto da Il Saggiatore “per ascoltare e guardare il mondo in modi un po’ meno assonnati”. E già il suo timbro inconsueto ci interroga su un punto cruciale: quanto siamo disposti ad ascoltare una voce che poco o per niente assomiglia alle altre? Il primo istinto è di metterla a margine, di farla da parte. Quasi a tenerla lontana per paura che possa svelarci qualcosa che abbiamo tutt'altro che voglia di stare a sentire.

Ci sono voci che ci adulano, ci spingono all’azione, ci somministrano consigli e medicamenti, ci consolano” dice Candiani. “E ci sono cornacchie che pensano al posto nostro, ci opprimono con commenti audaci e malevoli su tutto. Ma in fondo vogliono prevenire i giudizi di altri, e cercano di salvarci. Buongiorno cornacchia, so che sei tu. E la cornacchia, riconosciuta, si acquieta”.

Nel film Le sorelle Macalusoriadattamento cinematografico dell’omonima pièce teatrale, prodotto da Rai e Minimum Fax nel 2020, e scritto da Emma Dante con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta – Lia, la sorella più “inceppata” delle cinque, legge spesso a bassa voce le pagine dei suoi romanzi preferiti. In questo bisbigliare di parole la letteratura si fa viva, diventa preghiera e amuleto interiore, sequenza magica di protezione contro le maledizioni del tempo.

Ma più di tutto la voce si rivela nella potenza chiarificatrice dell’immagine, nell'estetica precisa che una scena dietro l'altra dispiega e scandisce gli accadimenti. Un periodare luminoso, fotografico. Il foro nel muro di un attico alla periferia di Palermo dove le cinque bambine vivono, crescono, invecchiano insieme a un allevamento di colombi che hanno ereditato – le loro "piccole persone", dei genitori alati e multipli. La luce del giorno che filtra nella colombaia domestica e la facciata del palazzo che si trasforma insieme ai volti, era dopo era. I gesti minimi e quelli più eclatanti, i passi di danza e il frullare d’ali che sulle note della musica giusta conducono al bagliore accecante del mare. Come se ogni vita non fosse altro che una festa che finisce in una bara troppo grossa per passare dal portone. Come se ogni corpo, in fin dei conti, fosse solo destinato a un incessante traslocare.

“La mia vita è un completo disastro. È un incontro crudelmente mancato, è una casa vuota” dice Ângela, nell’ultimo libro che Clarice Lispector ci ha lasciato, Un soffio di vita, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2019il dialogo tra un autore declinato al maschile e la sua creatura femmina che ha l'andamento del delirio schizofrenico. “Ma dentro c’è un cane che abbaia” continua Ângela. “E a me – non resta che abbaiare a Dio. Tornerò a me stessa. È lì che troverò una bambina morta povera. Ma una notte andrò all’Ufficio anagrafe e appiccherò il fuoco a tutto quanto e alle identità dei poveri. E solo allora sarò abbastanza autonoma da smettere di scrivere solo da morta”.

Libro “definitivo”, uscito postumo nel 1978 e scaturito “da uno slancio doloroso”, come racconta l’amica Olga Borrelli a cui la scrittrice ha affidato il manoscritto ancora provvisorio e disordinato prima di morire, Un soffio di vita è prima di tutto una lettera aperta sulla scrittura come forma d’esistenza. “Ho paura di scrivere” dice l’Autore all'inizio. “È molto pericoloso. Chi ci ha provato, lo sa. Per scrivere devo collocarmi nel vuoto. È in questo vuoto che esisto intuitivamente”. Scrivere può portare alla follia, gli fa eco Ângela qualche battuta dopo, è pericoloso. “Bisogna tacere e non raccontare niente di quanto si conosce. Io, per esempio, conosco Dio. E ricevo messaggi da me a me stessa. Io so creare il silenzio. Ecco come faccio: accendo la radio a volume molto alto – e poi di colpo la spengo”.

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