Nel suo Non è un paese per madri (Laterza, 2022) la demografa Alessandra Minello ci racconta un'Italia che considera il lavoro delle donne residuale, qualcosa a cui si può rinunciare soprattutto a fronte dei costi dei servizi di cura necessari per la prima infanzia
Alessandra Minello ci ha donato una bussola per orientarci e comprendere i meccanismi profondi che sottendono alle scelte procreative nel nostro paese. Per non lasciare adito a dubbi, ha intitolato il suo libro Non è un Paese per madri (Laterza, 2022). E nemmeno per padri, si potrebbe aggiungere. La cornice è resa subito chiara. Il nostro è un paese che presenta gravi arretratezze sia sul piano strutturale che su quello culturale. Il mondo del lavoro è profondamente inospitale per le donne. Siamo uno dei paesi con il tasso di occupazione femminile più basso in Europa. Le madri lavoratrici, però, sono particolarmente vulnerabili. Tendono a essere espulse da un mondo del lavoro che diventa per loro perfino più respingente.
“Il 63% delle donne senza figli è occupato, percentuale che scende al 59% per le donne con un figlio, al 56% per quante ne hanno due, al 42% se in famiglia ci sono tre o più bambini”, ci racconta Alessandra Minello.
Non è tutto. Le madri lavoratrici sono soggette a pressioni più forti in termini di ricorso al part time e di segregazione verticale, cioè l’impossibilità di progressione di carriera. Le madri vengono considerate dal mondo del lavoro un’inefficienza sistemica da contenere o eliminare. In effetti le madri che resistono nel mondo del lavoro si trasformano in delle giocoliere dalla vita impazzita. A fronte di servizi carenti e un welfare insufficiente, pattinano fra le incombenze facendosi carico della maggior parte del lavoro di cura – che per inciso in Italia raggiunge i livelli fra i più alti d’Europa.
A fronte di queste enormi difficoltà, molte donne scelgono, accettano o subiscono la fuoriuscita dal mondo del lavoro. A rafforzare questa tendenza interviene un dato strutturale: spesso è il lavoro delle donne a poter essere sacrificato. Le ragioni sono semplici: è di norma meno pagato a causa del gap salariale ed è più precario. Insomma, il lavoro delle donne non offre in ambito familiare le stesse garanzie della professione dell’uomo di casa, che si configura come l’unico procacciatore di reddito solido e affidabile.
Il lavoro delle donne è quindi considerato residuale, qualcosa a cui si può rinunciare soprattutto a fronte dei costi ingenti dei servizi di cura pubblici e privati necessari per la prima infanzia. A tutto questo si intrecciano i meccanismi culturali di una società ancora profondamente patriarcale.
Nel nostro Paese il 51% dichiara di credere ancora che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia. Una visione tradizionalista, che ci stacca dalla maggior parte dei paesi europei. Le donne sono così intrappolate nel potente steccato del mito della maternità, in cui “la madre è depositaria unica della virtù della cura, schiacciata dal peso della perfezione, dalle responsabilità e dal senso di colpa”, mentre i padri sono ancora alle prese un mito alternativo e speculare, quello del lavoro e del procacciatore di reddito.
Infine, per le donne che si dichiarano apertamente 'childfree, è ancora uso corrente lo stigma sociale. Le donne – che siano alle prese con il mondo del lavoro o meno – si trovano ancora a interpretare schemi fissi che non solo le inchiodano al ruolo dell’angelo del focolare, ma le investono di un carico di cura schiacciante e di un peso mentale sul piano organizzativo che degenera nell’inganno del multitasking. E questo è vero da Nord a Sud, anche se con variazioni di rilievo.
A fronte di tale inquietante scenario in cui spesso vocazioni, investimento negli studi e desideri vengono polverizzati o fortemente ridimensionati, è molto difficile credere che in Italia le scelte procreative possano essere davvero libere. E questo è vero tanto per le donne che i figli scelgono di averli comunque, sia per una parte di quelle che, invece, decidono che non sia una strada percorribile.
Cominciamo da una constatazione. Le donne aspettano per misurarsi con la scelta della maternità. Lascio la parola ad Alessandra Minello: “attualmente l’età media al primo parto è superiore ai 31 anni, maggiore per le donne che hanno un titolo di studio terziario, frutto, oltre che delle caratteristiche del mercato del lavoro, anche di un crescente investimento nella propria formazione che porta a rimandare l’inizio della ricerca di genitorialità”. Inoltre, la percentuale di donne che hanno il primo figlio oltre i quarant’anni è alta e in crescita. Le scelte procreative, infine, sono fortemente influenzate dal familismo, e cioè dalla presenza di figure familiari di supporto, tipicamente i nonni. Perché nella carenza di servizi e welfare, il familismo è una fonte preziosissima di compensazione al punto da influenzare profondamente alcune scelte.
Se da un lato, l’attesa è spiegabile con il tentativo rocambolesco di conciliare la resa dei percorsi di studio, l’uscita dalla precarietà, la stabilità affettiva e la presenza dei nonni, dall’altro la biologia non è generosa con le donne. Ritardare la maternità, comporta la possibilità di incorrere in problematiche legate all’infertilità e nel ricorso alla procreazione medicalmente assistita o all’adozione.
Le cose si complicano ulteriormente se cambiamo i presupposti e cioè se, per esempio, ci interroghiamo sui desideri delle donne, slegandoli almeno per un momento dalle contingenze della vita concreta e i suoi dettami. Così, scopriamo che esiste un profondo disallineamento fra desideri e scelte. Infatti, “l’Italia più di altri paesi soffre oggi del così detto fertility gap, la differenza fra il numero di figli desiderati e la fecondità realizzata. E ancora, “oltre la metà degli italiani desidererebbe avere due figli, quasi un quarto vorrebbe averne tre o più, mentre è ridotta (5,6%) la quota di quanti desiderano il figlio unico; (…) il 41% di chi ha già un primo figlio desidera averne un altro, ma troppo spesso questo desiderio non viene portato a compimento” scrive Minello. Insomma, la nostra è “una società che non riesce a soddisfare i desideri di maternità”.
E, infatti, l’Italia rappresenta una vera eccezione in Europa: sono molto numerose le donne senza figli fra le nuove generazioni. Fatta salva la libera scelta delle donne, è inevitabile chiedersi se la scelta di non avere figli sia sempre pienamente libera in un contesto così costringente. O se, al pari della maternità, è soggetta a costi e pressioni strutturali e culturali così pesanti da disincentivare il desiderio fino alla rinuncia. Così risponde Alessandra Minello: “Evitare intenzionalmente la genitorialità è spesso il risultato di avere altre priorità e il non essere disposte ad accettare sacrifici che la maternità comporta. È chiaro che in un contesto culturale e strutturale come quello italiano, che attribuisce alle donne quasi esclusivamente il ruolo della cura, la scelta di non avere figli è basata anche sulla consapevolezza che i costi della maternità non sono solo di natura finanziaria, ma incidono soprattutto sul tempo a disposizione per sé e sullo stile di vita.”
Davanti a un quadro così impietoso è bene ricordare che il mondo sta cambiando. E anche il nostro paese arranca verso il rinnovamento. Siamo alle prese con una evoluzione profonda lungo il solco della gender revolution, il processo di riequilibrio del potere tra i generi. “Nella prima fase sono le donne a conquistare un posto nello spazio pubblico, partecipando al mercato del lavoro retribuito, ricoprendo ruoli sempre più importanti dal punto di vista gerarchico nei luoghi di potere" scrive Minello. "Nella seconda fase è l’uomo a essere attivo, prendendo parte al lavoro di cura e ritagliando uno spazio più importante tra le mura domestiche. Se la prima fase si gioca fuori casa, la seconda si gioca in casa.”
Se le donne insomma stanno cambiando fra pionierismi e rivoluzioni, lentamente stanno cambiando anche gli uomini. Le direttrici lungo le quali sospingere la trasformazione sociale sono diverse. Uccidere i miti soprattutto quello della maternità e quello del lavoro che intrappolano donne e uomini in ruoli arcaici. Ragionare in termini di genitorialità come pratica condivisa in cui i padri hanno un ruolo al pari delle madri nella cura, nelle incombenze domestiche, nella crescita e nella responsabilità dei figli e delle figlie.
Smettere di concepire la famiglia tradizionale come l’unico modello e aprire lo sguardo alla molteplicità delle famiglie esistenti, composte da nuclei monogenitoriali e omogenitoriali. Sono queste ultime le famiglie che gli studi di psicologia infantile mostrano come prive di lacune affettive e di archetipi tradizionali.
Infine, prendersi cura delle madri e delle donne sollevandole dal lavoro domestico e di cura a favore della condivisione, riducendo i gap salariali, garantendo stabilità lavorativa, smettendo di rincorrere una conciliazione impossibile. L’augurio finale di Alessandra Minello è: “anche lì dove persistono i condizionamenti più forti, la regina del focolare deve abdicare al suo ruolo di regina, il re del lavoro deve scender dal trono”. Difficile non essere d’accordo. Buon viaggio a tutte e tutti, allora.
Alessandra Minello, Non è un paese per madri, Laterza, 2022
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