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Dialoghi. I divari di genere nell'apprendimento delle materie scientifiche si traducono a distanza di anni in una minore indipendenza economica delle giovani donne. Tutto, potremmo dire, comincia dalla matematica. Ne parliamo con Giulia Ferrari, ricercatrice in Didattica della Matematica all’Università di Torino

Matematica
dell'inclusione

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Foto: Unsplash/Greg Rosenke

Torniamo a parlare di donne e materie tecnico-scientifiche – le cosiddette Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) – un argomento che negli ultimi anni si è conquistato un crescente interesse politico, oltre che di ricerca, e ormai presente nei principali documenti programmatici, dall'Agenda 2030 delle Nazioni Unite agli obiettivi della Commissione europea a quelli del Piano nazionale di ripresa e resilienza. 

Viviamo in una società altamente condizionata dalle tecnologie, e in un mercato del lavoro che polarizza percorsi di studio e competenze, con forti ripercussioni nelle retribuzioni e nelle condizioni contrattuali, normalmente a sfavore delle donne. In particolare, i dati ci dicono che le differenze di genere nelle Stem avanzano a mano a mano che aumenta l’età e si divaricano progressivamente al momento della scelta dei percorsi di scuola secondaria di secondo grado e dei corsi di laurea, dove le donne si indirizzano perlopiù verso studi umanistici e gli uomini verso studi scientifici, tecnologici e matematici.

Uno dei risultati a distanza di anni, è che in Italia lavora solo una donna su due, e la maggior parte si concentra in settori che potremmo considerare contigui al lavoro di cura: educazione, servizi alla persona, sanità. 

Tutto, potremmo dire, comincia dalla matematica, una materia alla base di tutte le materie scientifiche. Ne parliamo con Giulia Ferrari, ricercatrice in Didattica della Matematica all’Università di Torino, che in questi anni ha preso parte a Tackling the Gender Gap in Mathematics, un progetto di ricerca dell'Università di Torino nato proprio per individuare e provare a comprendere quali sono le dinamiche che creano un divario di genere dell’apprendimento.

Cosa sappiamo sulle differenze di apprendimento nelle materie scientifiche in Italia e cosa avete scoperto con la vostra ricerca?

La mia prospettiva è quella di ricercatrice in didattica della matematica, dunque faccio riferimento al divario di genere in matematica, e quindi alla differenza tra le performance di ragazzi e ragazze nelle prove nazionali o internazionali che valutano la competenza matematica di studenti e studentesse a diversi ordini e gradi. E posso dire che in Italia ottengono migliori risultati bambini e ragazzi rispetto a bambine e ragazze; quindi che il divario è a favore dei maschi. La letteratura che ha indagato questo fenomeno cercando di inquadrarne le cause e trovare soluzioni è molto vasta. La nostra ricerca ha coinvolto il Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis” dell’Università di Torino (in particolare, le docenti Maria Laura Di Tommaso e Dalit Contini) e il mio dipartimento, quello di Matematica “Giuseppe Peano” (le docenti Francesca Ferrara e Ornella Robutti) della stessa università e ci ha consentito di raccogliere dati e informazioni per ricostruire un quadro complesso di quella che è la situazione dei divari di genere nell'apprendimento.

Facciamo un passo indietro, perché secondo te la matematica è una materia di particolare interesse per capire i divari di genere nell'apprendimento?

La matematica è una se non “la” materia che sta alla base delle discipline Stem. Molto spesso sentiamo infatti dire che la matematica è il linguaggio che viene utilizzato per procedere nella ricerca e nell’analisi scientifica. Non solo, i processi di argomentazione e problem solving, che sono tipici della matematica, permettono di sviluppare competenze trasversali che risultano fondamentali nel mondo del lavoro, e sono le caratteristiche per cui i laureati e le laureate in matematica sono molto richiesti. Il problema della partecipazione e della rappresentazione nelle discipline Stem ha le sue radici in parte nelle scelte del percorso universitario, i dati Ocse del 2018 ci dicono che le aspettative di carriera degli studenti con i risultati migliori in matematica o scienze rispecchiano fortemente stereotipi di genere. 1 ragazzo su 4 e solo 1 ragazza su 8 con i risultati migliori in matematica o scienze prevedono di lavorare come ingegneri o come professionisti nelle scienze all’età di 30 anni. Insomma, come già accennavi prima, segregazione di genere e differenze salariali tra uomini e donne, si traducono poi in minore indipendenza economica delle giovani donne.

Dati alla mano, cosa ci dicono i numeri?

A livello europeo le indagini Ocse del 2015, che si concentrano sulla valutazione di competenza matematica dei 15enni, evidenziano che l’Italia è un fanalino di coda, ovvero il divario di genere a favore dei maschi è statisticamente significativo (peggio di noi solo Argentina, Libano e Austria), con una differenza in media di 20 punti percentuali, a fronte di una media Ocse intorno agli 8 punti, sempre a favore dei maschi. I dati Invalsi (test nazionale di valutazione che ci dà una fotografia dei livelli di competenze di ragazze e ragazzi in italiano, matematica e inglese nella scuola, a diversi gradi) confermano il fenomeno. In particolare, le mie colleghe Contini, Di Tommaso e Mendolia hanno mostrato che il divario cresce all’aumentare dell’età, e che le ragazze perdono terreno a mano a mano che procedono nel loro percorso all’interno del sistema educativo. È importante pensare delle politiche che affrontino tale problema sin dai gradi più bassi.

Che risultati ottengono le ragazze nei test di matematica e cosa ci dicono le loro risposte sul divario di genere?

Nel progetto Tackling the Gender Gap siamo partite dall’analisi dei quesiti delle prove Invalsi di matematica al grado 2 e dei risultati ottenuti alla luce di questa analisi. L’analisi è stata molto approfondita, cerco di darvi alcune informazioni interessanti. Intanto le domande che rilevano un maggiore divario di genere, sono quelle del “Nucleo concettuale numeri”, che è quello rappresentato dal maggior numero di domande per prova. Abbiamo ritrovato un risultato noto in letteratura, secondo cui i ragazzi rispondono meglio delle ragazze a domande a scelta multipla, le domande aperte risultano invece più favorevoli per le ragazze. La dimensione del problem solving è quella che influenza maggiormente il divario, così come l’uso delle rappresentazioni.

In che modo l'intervento didattico che avete messo a punto con la vostra ricerca può innescare un'inversione di tendenza?

Innestando questi elementi all’interno di un laboratorio di matematica, una metodologia didattica che privilegia l’apprendimento attivo, il lavoro di gruppo, l’uso di strumenti e materiali, il focus su processi di argomentazione e problem solving, discussioni collettive che favoriscano l’interazione tra pari e incoraggino il confronto tra soluzioni, differenti approcci e rappresentazioni, e il focus sull’ambito relativo ai numeri, ovvero sulle competenze. Le schede didattiche sono poi state strutturate in modo da dare spazio all’argomentazione (che sappiamo in qualche modo “favorire” le femmine) senza trascurare però anche le domande a risposta multipla, creando nelle classi occasioni di confronto sulle strategie con cui è possibile affrontare entrambi i tipi di domande. Le attività sono state inserite all’interno di una “storia” all’interno dela quale i problemi matematici emergessero in modo “naturale”, aiutando i bambini e le bambine a essere coinvolti nel processo di soluzione.

In quante classi è stato portata questa sperimentazione?

In 25 classi del Piemonte (una delle regioni con il maggior divario di genere) grazie a tutor (io ero una di loro) che hanno seguito le indicazioni metodologiche e coinvolto le classi in attività incentrate sul 'nucleo numeri'. La grande domanda cui il progetto cercava di rispondere era proprio se un opportuno intervento didattico può ridurre le differenze di genere. Abbiamo sottoposto un test prima e dopo l’intervento didattico nelle classi “sperimentali”, ovvero quelle che hanno partecipato svolgendo le attività didattiche da noi progettate, e anche in classi di controllo, ovvero classi delle stesse scuole, ma che hanno svolto la loro “normale” attività didattica. L’analisi statistica di questi test ha mostrato un miglioramento significativo dei risultati dei post- test delle bambine: il divario di genere nelle classi sperimentali si è ridotto molto, circa del 40%. Ovviamente c’è ancora molto da fare e da approfondire in questo senso, ma ci sembra promettente il dato che l’impostazione didattica possa influire sulla riduzione del divario. Non dobbiamo cambiare le ragazze. Non è una differenza di tipo biologico. L’approccio didattico può fare la differenza.

Nel tuo lavoro sulla didattica della matematica uno dei passaggi che proponi è dal genere all’inclusione, vuoi raccontarcelo meglio?

Mi sembra importante partire da una considerazione: nell’esperienza del progetto di cui vi ho raccontato, non abbiamo escluso i maschi o privilegiato le femmine, l’attenzione è stata posta sull’intervento didattico, sulla sua progettazione, su alcuni elementi, processi e tipi di domande che possono influenzare il divario di genere. Per esempio, l’analisi statistica ha mostrato che i bambini maschi, mediamente, non hanno beneficiato delle attività didattiche e che invece da queste hanno tratto maggior beneficio le bambine che nel pre-test avevano ottenuto risultati medi o alti. A parità di valutazione nel pre-test, inoltre, hanno tratto maggior beneficio le bambine con background di tipo migratorio. Questo ci porta nuovamente a riflettere su come le scelte didattiche – non solo ovviamente, ci sono anche molti altri fattori che intervengono – possano avere un impatto diverso sui vari studenti. Un aspetto particolarmente rilevante in un momento di crisi sociale come quello aperto dalla pandemia, che sappiamo ha intensificato le disuguaglianze.

Come dovremmo ripensare l'apprendimento?

È necessario un ripensamento della pratica educativa verso una matematica più equa. Se in parte dobbiamo ancora capire che cosa significa, un esempio paradigmatico è quello del decentramento da un approccio alla matematica fondato sul calcolo e sull’applicazione delle procedure, sul problem solving, come rilevato dalla ricercatrice americana Joe Boaler, che ha mostrato che, con un insegnamento centrato sul problem solving la differenza di genere decresce e può persino scomparire. Prestare attenzione al divario di genere è già di per sé una pratica inclusiva.

Come immagini un futuro dove la matematica sarebbe davvero inclusiva?

Con il gruppo di ricerca in didattica della matematica dell’Università di Torino stiamo lavorando in questo senso, andando ad ampliare quanto fatto con il progetto precedente, in un’ottica di inclusione. Tema che è diventato negli ultimi anni al centro del discorso educativo anche grazie all’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha inserito oltre alla parità di genere, la riduzione delle disuguaglianze tra gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Non mi addentro in cosa inclusione significhi perché richiederebbe troppo spazio. Due aspetti però sono importanti qui da sottolineare. Il focus della nostra ricerca è decentrato dal singolo studente verso alcuni aspetti delle dinamiche di classe, in particolare il ruolo dell’insegnante. Sono dunque necessarie delle linee di intervento didattico per coinvolgere attivamente sia bambine che bambini in attività matematiche. Metodologie e contesto didattico sono i due aspetti sui quali ci si sta concentrando. Con il progetto MAT-In, ad esempio, al momento al termine della fase pilota, stiamo testando proprio i materiali e la formazione rivolta a docenti di scuola primaria.

Questo articolo nasce dalla conversazione avvenuta in occasione della presentazione del progetto "Ragazze digitali" della Regione Emilia Romagna.

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