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Il calo della natalità, in Italia come negli altri paesi, non è più considerato un problema delle donne ma di tutti. Aumentano i panel in cui a discuterne sono gli uomini. E Confindustria ha da poco diffuso un volume dedicato alla 'deriva demografica'

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Foto: Unsplash/ Jukan Tateisi

Qualche giorno fa Confindustria ha celebrato il 110° anniversario della Rivista di Politica Economica, la storica e prestigiosa rivista della casa, dal 2019 liberamente disponibile online. Il numero dell’anniversario (dicembre 2021) è interamente dedicato alla “deriva demografica”, e questo costituisce una novità assoluta per Confindustria. Fino a qualche anno fa, l’organizzazione degli industriali non avrebbe riconosciuto tale importanza a una questione riduttivamente considerata come sociale. E in qualche misura sarebbe stato eccessivo pretendere da Confindustria di farsi carico di un tema, la natalità, che si presentava per i datori di lavoro solo come un problema, un costo, e non certo come una sfida da affrontare.

Perché la denatalità cominciasse a mutare natura, dovevano verificarsi due fenomeni di segno opposto. Da un lato, la chiara visibilità di un processo avviato da tempo, ma non per questo evidente. Anche se per 35 anni il numero di figli per donna in media è stato ininterrottamente inferiore a 1,5, l'opinione pubblica ha cominciato a provare allarme solo quando se ne sono visti gli effetti, con le nascite a quota 400 mila e la popolazione che ha cominciato vistosamente a diminuire. Come ha notato Pier Carlo Padoan, intervenuto alla presentazione del volume, le variabili che agiscono nella lunga durata, quali sono quelle demografiche, o quelle ambientali, si muovono lentamente e inesorabilmente, ma non si vedono. Soprattutto, possiamo aggiungere, in un dibattito pubblico che sembra mobilitarsi solo per emergenze successive.

Dall’altro lato, in positivo, abbiamo registrato il timido inizio di una politica italiana di sostegno alle nascite, con l’introduzione dell’assegno unico, per ora la sola “gamba” cui ne andranno affiancate quanto prima altre due: nidi e congedi di paternità. Il “costo dei figli” non è più a carico esclusivamente di chi li fa, né dei datori di lavoro, che ne sono in qualche misura danneggiati, ma anche – e sempre più dovrà esserlo in futuro – dello stato, come avviene in tutti quei paesi che sono riusciti a contenere e invertire la tendenza.

Il caso italiano non trova spiegazione in una minore disponibilità dei giovani ad avere figli. Tutte le indagini sul numero di figli desiderato, come ricorda Maria Rita Testa nell’introduzione al volume di Confindustria, indicano per i giovani italiani la persistenza del modello della famiglia con due figli, con una fecondità desiderata paragonabile a quella degli altri paesi, e che supera largamente quella realizzata.

Alessandro Rosina rileva che l’Italia in Europa non si differenzia tanto per la bassa fecondità attuale, ma per aver anticipato una tendenza ormai comune a molti altri paesi europei, e per averla mantenuta costantemente per un periodo di tempo così lungo, tanto da alterare profondamente la struttura della popolazione. Più tempo passa e più questo effetto strutturale pesa: nel 2021 le 35enni risultano essere circa 334mila, oltre 100mila in meno delle 45enni, ma a loro volta quasi 50mila in più rispetto alle 25enni. 

Un punto cruciale per il nostro paese è la difficile transizione all’età adulta, che spiega l’alta età media delle madri alla nascita del primo figlio, circa 32 anni. Negli ultimi decenni l’età mediana di uscita dalla famiglia di origine è salita in Italia a livelli attorno ai 30 anni, mentre risulta inferiore ai 25 nei paesi scandinavi, in Francia, Germania e Regno Unito. A questo sommiamo il nostro primato europeo dei Neet, il tasso di disoccupazione giovanile, l’alta diffusione di lavoro a termine e di part time non voluto, soprattutto fra le giovani donne. Non stupisce che gran parte della riduzione della fecondità nell’ultimo decennio sia da attribuire al crollo delle nascite da madri sotto i 35 anni.

Eppure non sarebbe impossibile invertire la tendenza. Dobbiamo chiarire – a scanso di equivoci – che ispirarsi ai paesi con più alta fecondità in Europa non servirebbe a far crescere la popolazione italiana (un obiettivo, se tale fosse, su cui si potrebbe discutere), ma andrebbe a contenere gli squilibri strutturali, nell’economia e ancor più nella società, nel rapporto tra anziani e popolazione attiva.

In Germania si è riusciti a portare le nascite da 662 mila nel 2011, il punto più acuto della grande recessione, fino a quasi 800 mila nel 2016, grazie a un kindergeld universale e generoso (oltre i 200 euro/mese), all’apertura all’immigrazione e a una visione delle politiche per i figli come leva delle politiche di sviluppo. La Francia è riuscita a mantenere stabilmente una fecondità non troppo lontana dal livello di sostituzione di 2 figli per donna grazie a un quadro di sostegni stabile e continuativo, in vigore da decenni sotto governi di diverso orientamento ma su questo obiettivo concordi; sostegni non solo economici ma anche di servizi: nel paese la copertura dei nidi si estende al 50% dei bambini. La Svezia ha puntato sui permessi per entrambi i genitori, in un’ottica di  condivisione, superando la tradizionale conciliazione.

Dei tre strumenti in questione (assegno, nidi e congedi), il primo si presta anche a contrastare il processo di impoverimento che investe principalmente le famiglie con figli, scoraggiandole dall’andare oltre la nascita di un figlio unico. I dati riferiti al 2019 mostrano come in Italia la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno (rispettivamente 6,5% e 20,2%).[1] Il secondo strumento, i nidi, ridurrà il divario territoriale fra regioni del Centro-nord e regioni del Mezzogiorno, soprattutto se le risorse del Pnrr potranno avviare il  funzionamento duraturo delle infrastrutture-nidi, allontanando il pericolo di costruire tante piccole "cattedrali nel deserto", edifici perfetti ma vuoti. Il terzo strumento, quello di congedi tendenzialmente paritari fra padri e madri, darebbe un grande contributo alla parità di genere, considerando che l’Italia è uno dei paesi avanzati in cui la nascita di un figlio produce maggior impatto differenziato di genere, per la carenza di strumenti di conciliazione/condivisione, con le madri che rinunciano soprattutto all’impiego e i padri al tempo con i figli, dovendo intensificare il lavoro per le necessità di reddito familiare.

Nel 2006, in un libro dal titolo Questioni di genere, questioni di politica si voleva sottolineare come la soluzione delle diseguaglianze di genere, nella vita e sul lavoro, non fosse un “problema di donne”, bensì la condizione per assicurare la sostenibilità economica e sociale di lungo periodo.[2] Dopo molti anni, e infiniti seminari e convegni di “sole donne”, in quanto sistematicamente disertati dagli uomini, i nodi sono venuti al pettine. Sono sempre più numerosi i convegni dove panel a prevalenza maschile dibattono sulle drammatiche conseguenze, economiche e sociali, della questione demografica. Le due questioni, fino a ora discusse in sedi separate, vengono finalmente collegate, nell’analisi se non ancora nelle politiche.

Note

[1] Istat, La povertà in Italia - Anno 2019, Statistiche report, 2020, Roma

[2] Questioni di genere, questioni di politica. Trasformazioni economiche e sociali in una prospettiva di genere (A. Simonazzi, a cura di), Carocci, Roma 2006.