Politiche

La diffusione dei servizi di cura per la prima infanzia resta ancora disomogenea in Europa, e l'Italia non fa eccezione. Le conseguenze sulle diseguaglianze sociali e di genere

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Foto: Flickr/madanelu

I benefici associati alla diffusione dei servizi per la prima infanzia, sia in termini di occupazione delle donne che di sviluppo cognitivo e non-cognitivo dei bambini, sono stati ampiamente dimostrati dalla letteratura scientifica, ne abbiamo già parlato su inGenere. In particolare, è stato dimostrato come tali servizi coprano un ruolo rilevante per lo sviluppo dei bambini, soprattutto di quelli nati in contesti svantaggiati. I programmi di child care infatti possono fare molto per alleviare le condizioni di svantaggio nei primi anni di vita, sia fornendo ai bambini un’occasione di sviluppo, socializzazione e prima istruzione, sia facilitando l’accesso a questi servizi da parte delle famiglie a rischio di povertà. Per questi motivi, le politiche per la prima infanzia possono contribuire anche a ridurre le disuguaglianze nelle opportunità di vita[1].

L’Unione europea aveva chiesto agli stati membri, nell’ambito degli obiettivi di Lisbona, di fornire servizi di cura ad almeno il 90 percento dei bambini con età compresa fra 3 anni e l’età dell’ingresso nella scuola obbligatoria e ad almeno il 33 percento dei bambini sotto i 3 anni di età [2].

Nonostante la determinazione di questi target, però, la diffusione dei servizi di cura per la prima infanzia in Europa resta molto diversificata, e tanti paesi membri sono tuttora molto lontani dal raggiungere questi obiettivi. Una caratteristica che accumuna molti paesi europei è la forte differenza nell’utilizzo del servizio tra i bambini con al più 2 anni e i bambini in età pre-scolare: se tra i secondi la frequenza dei servizi di cura è vicina al 100 percento, il tasso di iscrizione per i primi anni di vita scende al 15 percento, soprattutto nei paesi dell’Europa continentale o mediterranea[3].

L’Italia non fa eccezione in questo scenario. In Italia i servizi della scuola dell’infanzia sono usufruiti da quasi la totalità dei bambini con età 3-5 anni. Al contrario, i bambini che frequentano un asilo nido prima del compimento dei tre anni rappresentano soltanto il 13 percento del totale[4]. Qui, il servizio di asilo nido è stato istituito negli anni ‘70 con una politica decentrata: la competenza principale nella gestione e regolamentazione del servizio è in mano ai comuni, mentre le regioni hanno la facoltà di regolamentare gli standard di qualità del servizio. Ad ogni modo, solo dalla fine degli anni ’90 si è avuto un reale impulso politico ad accrescerne la diffusione, seppur in modo decentrato e autonomo. Negli stessi anni, si è anche data la possibilità ai privati di offrire il servizio.

La figura 1 riporta la variazione nella disponibilità degli asili, sia pubblici che privati, dal 2002 a oggi, e per macro-area. La figura mostra innanzitutto evidenti differenze regionali, con una diffusione di asili nido superiore nel centro-nord rispetto alle regioni del sud. Inoltre, le disparità tra aree geografiche si sono ampliate: la disponibilità del servizio infatti è cresciuta particolarmente nelle regioni del centro-nord, soprattutto in virtù dell’aumento del numero di asili privati (figura 2). La figura 1 mostra anche come la disponibilità del servizio sia aumentata negli anni 2000, per poi stabilizzarsi a partire dal 2008. Tale fenomeno sembra in linea con la recente evidenza di una flessione nella percentuale di bambini coperti dai servizi formali a seguito della crisi economica, riportata dai dati Eurostat (EU-SILC) e già commentata su inGenere e da alcuni quotidiani nazionali.[5]

Figura 1. Tasso di copertura degli asili nido pubblici e privati, per macro-area

Fonte: Istituto degli Innocenti (2002, 2006, 2008, 2010 and 2013)

Figura 2. Asili nido privati (numero assoluto)

Fonte: Istituto degli Innocenti (2002, 2006, 2008, 2010 and 2013)

Data la scarsa disponibilità del servizio, una coerente valutazione della politica dovrebbe tenere in considerazione anche chi ne usufruisce e come l’utilizzo sia condizionato da caratteristiche socio-economiche delle famiglie.

In un nostro recente lavoro[6] abbiamo analizzato come le caratteristiche socio-economiche delle famiglie influenzano la scelta di utilizzare l’asilo nido nelle varie regioni italiane, e di come questa associazione sia cambiata nel tempo. A questo scopo abbiamo utilizzato tre edizioni dell’Indagine campionaria Istat sulle nascite e sulle madri, condotte nel 2002, 2005 e 2012. Il periodo considerato è particolarmente interessante in virtù della espansione marcata e differenziata della disponibilità degli asili avvenuta in questi anni.[7]

L’indagine Istat sulle nascite e sulle madri contiene informazioni sulle modalità di cura scelte da un campione di madri con almeno un figlio tra i 18 e i 24 mesi di età. In particolare, possiamo distinguere se il bambino è prevalentemente accudito dai genitori (cura parentale), oppure da familiari e/o amici (servizio informale), oppure se frequenta l’asilo nido (servizio formale). La nostra analisi si è focalizzata sul livello di istruzione della madre, distinguendo tra istruzione terziaria, superiore e obbligatoria, e il livello di occupazione del padre, distinguendo tra professioni di livello alto (manager, imprenditori), medio (impiegati, artigiani), basso (lavoratori manuali) e, come ulteriore categoria distinta, i disoccupati.

L’analisi indica che la forma prevalente di cura in tutto il periodo considerato resta quella parentale, principalmente basata sulla madre. Ciò è legato al livello di occupazione femminile in Italia, tra i più bassi d’Europa: per quanto riguarda le madri, il tasso di occupazione è infatti del 54 percento in Italia, contro valori vicini al 70 percento nel Regno Unito, Francia e Germania [3].

Ad ogni modo, l’analisi mostra che, in linea con l’aumento della disponibilità degli asili mostrato in figura 1, l’utilizzo di tipi di cura formali è raddoppiato dal 2002 al 2012; al contrario, meno famiglie si sono avvalse dei nonni o parenti stretti per accudire i loro figli.

In tutto il periodo, osserviamo una forte associazione tra la posizione sociale della famiglia e la forma principale di cura utilizzata: famiglie con madri più istruite e padri in posizioni occupazionali più elevate utilizzano maggiormente forme di cura del bambino diverse dalla cura genitoriale, e in particolare gli asili. Ad ogni modo, osserviamo anche che le famiglie con madri meno istruite e padri in posizioni occupazionali più basse hanno progressivamente aumentato l’utilizzo di forme di cura esterne alla famiglia (sia formale che informale), anche se questo non è sufficiente per colmare la distanza con le famiglie più avvantaggiate.

Quando distinguiamo tra il ruolo del livello di istruzione della madre e dell’occupazione del padre, troviamo che il primo è più rilevante nell’influenzare la probabilità di avvalersi dei servizi dell’asilo. Questo potrebbe essere legato al fatto che un criterio utilizzato da molti comuni per la frequenza al nido è la condizione occupazionale della madre, la quale è altamente correlata con il suo livello di istruzione, le madri più istruite hanno infatti tassi di occupazione maggiori. Tuttavia, anche a parità di condizione occupazionale, il ruolo dell’istruzione della madre rimane sempre più forte, suggerendo la potenziale importanza di disposizioni culturali.  

Come abbiamo mostrato in precedenza, la crescita della disponibilità degli asili nido tra il 2002 e il 2012 non è stata uniforme sul territorio italiano, ma ha principalmente riguardato il nord e il centro del paese. Quando analizziamo la relazione tra la posizione socio-economica della famiglia e l’uso degli asili nido, abbiamo riscontrato che anche le differenze socio-economiche nell’uso del servizio sono aumentate principalmente al nord (figura 3).

Figura 3. Probabilità di usufruire dei servizi di cura formali secondo l’anno, l’istruzione della madre e la macro-area geografica

Questi risultati indicano la presenza di forti differenze socio-economiche nell’utilizzo degli asili nido in Italia. Sfortunatamente, i dati non ci permettono di capire se questo dipenda da componenti della domanda del servizio - tra cui le preferenze dei genitori oppure un reddito insufficiente per pagare il servizio, oppure da fattori relativi all’offerta. Sappiamo infatti che i comuni, che sono i principali gestori degli asili nido pubblici, utilizzano criteri di accesso per la selezione degli utenti, data la scarsità di posti disponibili. Questi criteri possono privilegiare bambini che provengono da famiglie svantaggiate, con basso reddito, oppure bambini con madri lavoratrici, per favorire la conciliazione famiglia-lavoro[8]. Il mix di criteri utilizzati può pertanto influenzare in modo rilevante la composizione sociale di chi ha accesso al servizio. Un’altra ragione della crescente disuguaglianza nel tempo tra famiglie con caratteristiche socio-economiche diverse e nel territorio può essere rintracciata nello sviluppo degli asili privati, che – nel periodo da noi considerato – è avvenuto in modo diseguale tra le aree territoriali, con tassi maggiori nel nord del paese. Infatti, pur aumentando l’offerta del servizio, la maggior presenza di nidi privati implica anche maggiori costi sostenuti dalle famiglie per utilizzare il servizio, visto che i nidi privati non sono sovvenzionati come i pubblici. Per questo, l’aumento dell’offerta dei privati potrebbe avere favorito l’accesso prevalentemente alle famiglie con reddito medio-alto, le quali possono permettersi di pagare rette più alte.

È importante evidenziare come la letteratura identifichi soprattutto nelle famiglie a basso reddito, inserite in contesti svantaggiati, quelle che possono beneficiare di più del servizio. Per questo motivo, un diseguale accesso e utilizzo di servizi per la prima infanzia può ulteriormente ampliare le differenze socio-economiche di partenza tra le famiglie, generando ripercussioni di lungo periodo a svantaggio delle opportunità scolastiche e di vita dei bambini nati in contesti svantaggiati. 

NOTE

[1] Bennet, J. (2008), Early Childhood Services in the OECD Countries: Review of the Literature and Current Policy in the Early Childhood Field’ Innocenti Working Paper 2008-01, Florence, UNICEF Innocenti Research Centre.

[2] Unione Europea (2002), Conclusioni della Presidenza, Consiglio Europeo di Barcellona, 15-16 Marzo 2002, Barcellona

[3] Dati Eurostat, 2009

[4] Istat (2014), L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012/2013’. Istituto Nazionale di Statistica, Roma (Italy).

[5] I dati Eurostat tratti dall’indagine comunitaria Eu-Silc e i dati Istituto Degli Innocenti, utilizzati per la figura 1, non sono direttamente comparabili. La prima fonte considera infatti tutte le modalità di accoglienza dell’infanzia che abbiano caratteristiche di ‘struttura formale’ e non di soluzione individuale, includendo quindi anche realta’ come gli spazi-gioco e le ludoteche. La seconda fonte (Istituto degli Innocenti) considera principalmente le strutture di asili nido, a finalita’ pubblica o privata. Inoltre i dati utilizzati per la figura 1 non coprono gli anni piu’ recenti, in cui la flessione nella disponibilita’ del servizio e’ stata piu’ marcata.

[6] Brilli, Y, Kulic N, Triventi M (2016, forth.), Who cares for the children? Family social position and childcare arrangements in Italy, 2002–12 in Blossfeld HP, Kulic N, Skopek J and Triventi M (eds). Childcare, Early Education and Social Inequality, Cheltenham, UK/Northampton, MA, USA: Edward Elgar.

[7] Occorre precisare che la struttura temporale dell’indagine Istat sulle nascite e sulle madri non permette di analizzare nello specifico la flessione nella copertura di servizi formali per la prima infanzia avvenuta negli ultimi anni, poiché  l’ultima edizione si riferisce all’anno 2012.

[8] Brilli Y, Del Boca D, Pronzato C (2016), Does child care availability play a role in maternal employment and children's development? Evidence from Italy, Review of Economics of the Household, 14(1):27-51.