Come stanno e come hanno vissuto in questi mesi le donne fuggite dalla guerra in Ucraina. I primi dati raccolti da Refugees Welcome raccontano l'accoglienza delle famiglie, e l'inserimento lavorativo delle rifugiate che attualmente si trovano in Italia
Come le famiglie italiane stanno accogliendo le donne ucraine fuggite dalla guerra e che ne è della loro successiva inclusione nel mercato del lavoro in Italia, ne parliamo con Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome Italia, ong che si dedica alla promozione dell’inclusione sociale delle persone rifugiate in Italia.
Iniziamo con qualche parola sulla pratica stessa: qual è l’idea dietro l’accoglienza di un rifugiato o di una rifugiata nelle nostre case?
Refugees Welcome Italia è una associazione che ha come obiettivo quello di facilitare l’inclusione sociale delle persone rifugiate. Lo facciamo attraverso numerosi progetti, tra cui anche quello dell’accoglienza nelle case private. Per chi accoglie è innanzitutto un gesto di solidarietà, un desiderio di condividere quanto si ha con i meno fortunati e le meno fortunate, ma anche un'opportunità per insegnare ai propri figli i valori dell’accoglienza e della diversità e infine un modo per ampliare i propri orizzonti culturali e la propria esperienza di vita. Per chi invece viene invitato a condividere la casa e di conseguenza anche la vita quotidiana con una famiglia nel paese d’accoglienza, quest’opportunità senza dubbio potrà significare un inserimento più facile nel nuovo contesto di vita.
Con la guerra in Ucraina la ricezione dei rifugiati e delle rifugiate si è spostata notevolmente dal livello istituzionale a quello della società civile. Lo abbiamo osservato in diversi paesi dell’Unione europea, Italia compresa. Quante sono state le donne ucraine ospitate all’interno della vostra rete?
Proprio ad agosto abbiamo svolto una piccola indagine al riguardo, che ha coinvolto le nostre sedi nelle città di Milano, Roma, Bari e Padova. Dai dati raccolti risulta che complessivamente in quel momento l’accoglienza riguardava 191 persone, con 178 precedenti convivenze concluse. La metà delle persone rifugiate che continuavano ad alloggiare presso le famiglie italiane era costituita da donne e un altro 40% da minori. Una caratteristica particolare riscontrata durante la ricerca indicava che oltre il 90% delle donne ospitate non superava l’età anagrafica di 55 anni e quindi faceva pienamente parte della popolazione attiva, costituendo una risorsa importante per il mercato del lavoro.
L’inclusione lavorativa è stato uno dei temi chiave nell’ottica dell’arrivo delle donne ucraine fuggite dalla guerra: come requisito base per poter garantire loro l’indipendenza economica per loro stesse e per i loro figli, data anche un’alta incidenza di lavoratrici qualificate tra di loro. Come avete affrontato il tema delle competenze professionali e dell’adeguato inserimento lavorativo delle vostre assistite?
All’inizio del percorso d’accoglienza sono stati fatti bilanci di competenze con le rifugiate. È stato infatti confermato l’alto livello di scolarizzazione e preparazione delle donne ucraine arrivate in Italia. La stragrande maggioranza di queste donne è in possesso di una laurea, del diploma professionale o comunque di un diploma; si annovera anche un certo numero di studentesse universitarie. Tra le rifugiate censite altamente qualificate c’erano ad esempio: docenti, maestre, insegnanti di lingue, educatrici, lavoratrici d’ufficio nel campo del marketing e della comunicazione, della contabilità, nelle banche e anche artiste. Abbiamo avuto inoltre casi di donne che in Ucraina lavoravano come specialiste del mercato del lavoro, che si sono impegnate anche qui in Italia nel facilitare l’inserimento lavorativo delle proprie concittadine fuggite dalla guerra.
Dove hanno trovato lavoro le rifugiate ucraine che hanno partecipato alla vostra indagine?
C’è una notevole differenza di offerte e di possibilità a seconda del luogo in cui si trovano queste donne. L’indagine portata avanti dalle quattro sedi di Refugees Welcome Italia ne rappresenta una conferma. Ad esempio sappiamo che a Milano il 35% delle persone rifugiate accolte nelle case lavorava, e di queste un terzo ha trovato un impiego stabile. È importante sottolineare che la fine del 30% di tutte le convivenze a Milano, è stata dovuta al trasferimento per lavoro fuori città. È simile il quadro romano per quel che riguarda l’inclusione nel mercato del lavoro – anche in questo caso l’incidenza arriva al 30%: tuttavia la qualità del lavoro qui è risultata più scarsa, in quanto si è trattato in prevalenza di impieghi saltuari e part-time. Inferiore, invece, la percentuale di fine delle convivenze causata dal trasferimento lavorativo dalla capitale in un’altra città, pari al 17%. Ancor più complesso si presenta lo scenario a sud: le statistiche raccolte a Bari mostrano che solo una su cinque delle donne ucraine partecipanti alla nostra indagine ha trovato un lavoro. Diverse delle rifugiate intervistate su tutto il territorio svolgono mansioni al di sotto delle loro qualifiche (tradizionalmente nel settore di cura della persona e dei servizi – ristorazione, ricezione, pulizie); tuttavia ci sono state anche quelle che sono riuscite a trovare lavori di pari livello alle proprie competenze: musiciste, docenti universitarie, ricercatrici. Nel complesso, è risultato piuttosto significativo inoltre il numero di persone che continuano a lavorare da remoto per le loro aziende in Ucraina – a Milano questa percentuale rappresenta un terzo di tutti i lavoranti.
Secondo la vostra esperienza diretta, oltre alle difficoltà oggettive del mercato del lavoro italiano, e alle problematiche legate al riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche ottenute, quali sono gli ostacoli principali per una maggiore inclusione lavorativa delle rifugiate ucraine in Italia?
Il problema fondamentale è senza dubbio la mancanza della conoscenza della lingua italiana, il che genera di conseguenza un’offerta di lavoro sotto qualificata (e quindi in diversi casi non accettata). Un altro, e altrettanto importante, ostacolo è rappresentato poi dalla complessa e delicata gestione dei bambini – rifugiati di guerra anche loro – che per giunta vengono a trovarsi spesso all’interno di nuclei monoparentali. Il terzo fattore è costituito dalla convinzione di una permanenza relativamente breve in Italia, che comporta l’incapacità di fare piani a medio e lungo termine. C’è quindi poca motivazione e forza per individuare un vero e proprio progetto d’inserimento lavorativo in un nuovo contesto di vita. Come vediamo, allora, oltre alle problematiche strutturali, ci sono anche quelle soggettive, che generano priorità diverse a seconda delle scelte delle singole persone.
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