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La globalizzazione, le disuguaglianze e i cambiamenti climatici sono le tre grandi questioni del nostro tempo e Susan George, scienziata sociale del Transnational Institute di Amsterdam, non ha dubbi: hanno un impatto specifico sulle donne. L'abbiamo intervistata

Essere libere ai tempi
dell'economia globale

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Foto: Unsplash/ Slava Bowman

Scienziata sociale, Susan George ci tiene a non essere definita un'economista, al massimo una politica economica. Dagli anni ’60 ad oggi si è occupata di economia globale e ingiustizia sociale, ricevendo riconoscimenti da parte di enti e università. Su questi temi ha scritto diciassette libri, alcuni dei quali sono stati tradotti in diverse lingue. Nell’ultimo periodo si è dedicata al controllo che le corporation commerciali esercitano sulle leggi e quindi sulla vita delle persone. Presidente onoraria di Attac-France, l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l'aiuto ai cittadini di cui in passato è anche stata vicepresidente, fa parte del Transnational Institute di Amsterdam. L’abbiamo incontrata a Roma per rivolgerle alcune domande in occasione della sua partecipazione al convegno Libertà delle donne nel XXI secolo che si è tenuto alla Casa internazionale delle donne dal 20 al 22 ottobre.

Libertà delle donne, come declinerebbe questa espressione al presente? Cosa significa secondo lei “libertà” per una donna del secondo millennio?

Beh, stiamo meglio che nel diciannovesimo secolo, ci sono stati dei progressi, in Occidente soprattutto. Ma non possiamo parlare delle donne come se fossero un blocco unico, bisogna tenere in conto le intersezioni. Tutto dipende dalla classe, dalla parte del mondo in cui ci troviamo: la situazione di un’agricoltrice africana fortemente esposta al cambiamento climatico ha poco a che fare con la mia o con la tua. Quello che possiamo fare è considerare il discorso per regioni, ad esempio nell’area del Pacifico le disuguaglianze riguardano le donne in misura molto maggiore che in altre parti del mondo. Ho accettato di partecipare a questo convegno perché ci sono questioni che oggi riguardano tutti ma che hanno un impatto specifico sulle donne. E sono almeno tre grandi problemi: la globalizzazione, le diseguaglianze, il cambiamento climatico. L’impatto cambia in base alla classe, alla situazione matrimoniale, al fatto che una donna è sola o con figli, alla posizione geografica e alle leggi dei singoli paesi. 

Quanto conta secondo lei in questo momento storico l’alfabetizzazione finanziaria delle donne come strumento di autodeterminazione?

È fondamentale che le donne imparino a gestire le proprie risorse. Quando sono andata in Francia per la prima volta, alla fine degli anni Cinquanta, una donna non poteva neanche avere un conto in banca. Adesso non accade più. In alcuni paesi poveri, in Brasile per esempio, il governo è stato abbastanza intelligente da prevedere dei fondi per le famiglie con figli che vanno a scuola – la “borsa famiglia” – che sono destinati direttamente alle madri, e in India le donne si assicurano di essere loro a gestire i risparmi perché altrimenti i mariti li spendono in alcol. Quindi, certo, le donne hanno bisogno di conoscenze finanziarie, a qualsiasi livello si trovino, soprattutto se sono povere e le risorse da gestire sono poche. Perché solo se conosciamo l’abc della finanza possiamo pensare di fare anche qualcosa di più grande. Non dico che dobbiamo diventare tutte broker o agenti di borsa, ma certe donne hanno un ottimo talento anche per questo.

Lei è stata e rappresenta una delle intellettuali più attive nel contrasto al pensiero unico veicolato da un’economia globale che si fonda sull’ingiustizia sociale. Esiste secondo lei un modello sostenibile di sviluppo? Cosa ne pensa degli obiettivi definiti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, li considera una via percorribile?

È vero, l’economia globale è basata sull’ingiustizia. Ma non posso dire che ci sia “un” modello di sviluppo sostenibile. Ce ne possono essere diversi a seconda del luogo in cui ci troviamo, della storia, anche ambientale, di questo posto, tutti questi aspetti devono essere tenuti in considerazione. È evidente che i singoli paesi sono ancora lontani dal raggiungimento degli obiettivi tracciati dalle Nazioni Unite, nonostante ci siano stati alcuni progressi – la mortalità infantile per inquinamento, ad esempio, è già diminuita e questo è un bene – ma è comunque positivo che esistano degli obiettivi da perseguire, che esista per i singoli e per le comunità la possibilità di sapere che tali obiettivi esistono e di creare un’economia che sia sostenibile. Eppure che siano i governi a intervenire non è così necessario. Ci sono tante storie, in Africa per esempio, che lo dimostrano. In molte regioni le donne si sono organizzate da sé attorno a questioni come l’agricoltura, l’acqua, il cibo. Si sono auto-organizzate per trovare piantagioni che resistono meglio alla siccità e sanno benissimo come funziona il sistema di approvvigionamento dell’acqua, se un pozzo è secco o se è stato inquinato. Il problema è spesso che i burocrati non credono abbastanza nelle conoscenze locali, nei saperi delle comunità. Il primo passo verso un’economia che sia sostenibile dovrebbe invece proprio essere che i governi si interessino direttamente a livello locale, che siano in grado di comunicare con le comunità e con i territori, per capire cosa già è in atto e cosa manca. Certo, le persone non sanno tutto, ma sanno abbastanza per essere tenute in considerazione nell’attuazione di questo tipo di politiche.

Parliamo di Europa e dei nuovi fondamentalismi che la attraversano, da quelli politico-religiosi a quelli finanziari. Lei fai parte, insieme a Saskia Sassen e altri, del movimento per la democrazia in Europa che si propone proprio di rivedere il concetto di Europa entro il 2025. Cosa ha fallito del progetto europeo e cosa si può ancora salvare, insomma, qual è l’Europa che avete immaginato?

Abbiamo bisogno di più democrazia in Europa. Il più grande dibattito che abbiamo avviato in Francia nel 1968 è stato quello sul fatto che le persone muoiono di fame, è da lì che abbiamo iniziato a criticare la presunta democraticità delle istituzioni europee. Dopo il referendum approvato dal governo francese nel 2005 dove il 55% della popolazione ha votato contro il Constitutional Treaty, il risultato è stato completamente ignorato dall’Europa. Semplicemente si sono seduti a tavolino e hanno scritto il trattato di Lisbona che era praticamente la stessa cosa, con un altro nome: un cambiamento apparente per rendere il trattato più “digeribile”. Durante le trattative con la Grecia, Gianīs Varoufakis (ministro delle finanze durante il primo governo Tsipras, ndr) era l’unica persona eletta attraverso un processo democratico tra quelle sedute ai tavoli. La petizione di iniziativa cittadina sui trattati di commercio internazionale con gli Stati Uniti e con il Canada è stata ignorata, nonostante la Corte di giustizia europea abbia poi ripreso la Commissione ritenendola una richiesta legittima per un dibattito altrettanto legittimo. Che tipo di democrazia è questa? Le persone si stanno stancando. Io non voglio andarmene dall’Europa, ma bisogna evitare che l’Europa commetta un suicidio. Perché è quello che stanno facendo.