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SPECIALE EUROPA. Cosa ha significato l'Unione europea per i diritti delle donne: dal Trattato di Roma all'ultima direttiva sulla conciliazione, ripercorriamo il tragitto che ci ha portate fin qui per definire l'Europa che vogliamo

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Foto: Unsplash/ Dane Deaner

Le pari opportunità di genere sono state riconosciute come un valore dall’Unione europea fin dal Trattato di Roma del 1957, con l’articolo 119. Se è vero che inizialmente il riferimento era limitato alla discriminazione salariale, coerentemente con un principio liberale di equal pay for equal value, più tardi, ed esattamente dopo la prima metà degli anni '70, le pari opportunità di genere sono diventate un principio fondante che ha ottenuto via via sempre maggior attenzione tanto nei trattati che nelle politiche.

Dal liberal equal pay alle soft laws

Il passo più importante in questa direzione è stato l’approvazione di tre direttive riguardanti la discriminazione di genere dal punto di vista salariale (1975), nell’accesso al mercato del lavoro e alle condizioni lavorative (1976) e nei sistemi pensionistici (1979), introdotte sulla base dell’articolo 119 del trattato su iniziativa della Commissione europea, con un forte sostegno della società civile, che all’epoca viveva la seconda ondata femminista, e su sollecitazione di alcune pronunce della Corte di giustizia.

In seguito, negli anni ’80, a causa di un clima politico moderato che aveva preso piede in molti stati membri, divenne più difficile approvare formalmente una legislazione avanzata contro la discriminazione di genere, ma il tema era entrato nell’agenda della Commissione e del neonato Parlamento europeo elettivo (in precedenza l’assemblea era costituita da personalità designate dai parlamenti degli stati membri) e fu proprio la Commissione, di fronte a questa resistenza degli stati, a dar vita a una strategia tanto alternativa quanto efficace: quella delle cosiddette soft laws: raccomandazioni, regolamenti non vincolanti e programmi di azione.

Soft laws che sono ancora oggi parte della strategia della Commissione e che hanno portato a uno strutturarsi nel tempo di istituzioni dedicate all’interno della Commissione e del Parlamento: in primis l'unità in seno alla Commissione europea (dapprima presso la Direzione Generale Occupazione, inclusione e affari sociali e in seguito trasferita presso la Direzione Generale Giustizia) e la struttura analoga presso il Parlamento europeo (Commissione FEMM).

Parallelamente la Commissione ha dato forte impulso e sostegno alla formazione di una rete transnazionale di una società civile delle donne (ad esempio tramite la European women’s lobby) che allo stesso tempo ha agito esternamente da stimolo e sostegno alla ulteriore strutturazione istituzionale.

In questo gioco di rinforzo, quindi, hanno avuto un ruolo importante le donne fuori e dentro le istituzioni: donne con diversi bagagli ideali e culturali che si sono messe al servizio delle altre donne europee. 

Un nuovo impulso per le pari opportunità: la Piattaforma di Pechino

La riforma dei trattati del 1992 vide il Parlamento assumere una maggior rilevanza politica e parimenti crescere il ruolo delle parti sociali nel processo della costruzione delle politiche: il risultato fu un nuovo impulso per le pari opportunità di genere. Questi cambiamenti favorirono l’introduzione di un'altra importante direttiva sulla maternità e l’allattamento. E fu nello stesso periodo che le istituzioni europee, e in particolare il Consiglio europeo, diedero il proprio endorsement politico alla Piattaforma d’azione di Pechino (Consiglio di Madrid del 1995).

La piattaforma coincide con una strategia comprensiva e complessa che mira concretamente al miglioramento della condizione delle donne nella società. L’impegno del Consiglio alla piattaforma ha rappresentato un ulteriore momento di svolta: ha infatti significato assumere le finalità, fissare gli obiettivi da raggiungere e attivare un sistema di monitoraggio. Queste progressive aperture hanno portato con sé una sempre maggiore attenzione delle istituzioni europee alle istanze della società civile e degli esperti sul tema e un impulso nuovo, che si è tradotto in ulteriori successi formali con l’approvazione di significative direttive sui congedi parentali, sull’onere della prova nei casi di licenziamento, sul lavoro part-time e successivamente sul pari trattamento nelle condizioni lavorative e, più tardi, sull’accesso a beni e servizi. Infine, la recente direttiva sulla conciliazione tra lavoro e famiglia

L'Agenda di Lisbona e la Strategia Europa 2020

Oltre ai notevoli passi avanti della legislazione – ricordiamo che le direttive sono vincolanti e che gli stati membri sono obbligati ad allinearsi, pena una procedura di infrazione e possibili multe – sono stati elaborati metodi e strumenti concreti per poter tradurre le direttive, ma anche le soft laws, in politiche europee e degli stati membri. Rafforzando ulteriormente le istituzioni dell’Unione dedicate all’uguaglianza di genere e le corrispondenti strategie di azione sia dedicate al miglioramento delle pari opportunità – strategie per le pari opportunità tra uomini e donne – sia strategie più generali della crescita e dello sviluppo che sussumevano obiettivi di pari opportunità sostenute anche da programmi con risorse finanziarie dedicate. 

Ricordiamo per esempio come l’attenzione specifica alla condizione delle donne emersa dalla Strategia di Lisbona del 2000, con particolare riguardo all’occupazione e al mercato del lavoro, ha assunto un ruolo primario nella politica dell’Unione europea volta a raggiungere un tasso di occupazione femminile medio europeo del 60%. La Commissione europea era in quel caso chiamata a garantire il controllo della strategia presentando ogni anno un rapporto sulla sua attuazione al Consiglio, la cosiddetta relazione di primavera.

Sebbene la Strategia Europa 2020 – una continuazione dell’Agenda di Lisbona – sia stata criticata perché non prevede target disaggregati per genere, al suo interno sono stati adottati indicatori per monitorare occupazione e istruzione femminile e nel processo del Semestre Europeo c'è stata una attenzione continua al tema con specifiche raccomandazioni di policy rivolte ai paesi membri per adottare misure riguardo a sistemi di tassazione, mercato del lavoro, sussidi e misure per la riconciliazione, inclusione sociale delle fasce più deboli.

È grazie a queste raccomandazioni che si è visto un miglioramento della disponibilità di asili nido anche nel nostro paese. La stessa recente riforma del sistema educativo 0-6 anni ha preso le mosse proprio da queste richieste.[1]

Il ruolo dei fondi strutturali e del Fondo sociale europeo

Un ruolo importante nell’attuazione dell’agenda europea sull’uguaglianza di genere è ricoperto dai cosiddetti fondi strutturali, il principale strumento dell’Ue per la promozione della coesione socioeconomica dei paesi membri, e tra questi in particolare è il Fondo sociale europeo (Fse) che promuove l’occupazione e l’inclusione sociale tramite il finanziamento di progetti specifici con il meccanismo dei bandi pubblici.

I fondi strutturali sono gestiti dagli stati membri in cooperazione con la commissione europea in base a regolamenti unici che fanno sì che al di là delle differenze nazionali vengano impiegati in maniera coerente ai principi ispiratori. Grazie a tali fondi è possibile, tramite bandi specifici, finanziare progetti concreti nei paesi membri. I fondi europei e in particolare il Fse hanno offerto un sostegno importante alle politiche per le pari opportunità di genere. In alcuni paesi sono stati l’unica vera concreta risorsa su cui contare per sperimentare nuove politiche e in alcuni casi per dare una continuità alle politiche per cui le risorse nazionali non sarebbero (più) state disponibili.

Soprattutto a partire dalla programmazione 2000-2006 i regolamenti dei fondi hanno previsto che l’uguaglianza di genere e la non discriminazione fossero un principio fondamentale nella loro azione, principio che deve essere rispettato in tutte le fasi della programmazione, implementazione e valutazione. Questo ha fatto sì che fondi e progetti specifici venissero dedicati a progetti specificatamente mirati al miglioramento della condizione femminile, così come a rafforzare la capacità delle amministrazioni pubbliche di 'pensare' in un’ottica di genere, istituendo delle unità apposite all’interno delle amministrazioni che si occupano di attuazione dei progetti finanziati con i fondi strutturali. Scelte strategiche che hanno portato risultati concreti, come l’inserimento dei criteri premiali gender sensitive nei bandi per i progetti, oppure lo stanziamento di quote dei fondi per finanziare progetti gender sensitive o esplicitamente rivolti alle donne perché promuovono ad esempio azioni di awareness raising o di conciliazione.

I programmi gestiti dalla Commissione: Daphne, Easi, Horizon2020

Oltre ai fondi strutturali vi sono altre importanti iniziative a favore dell’uguaglianza di genere tramite i programmi europei gestiti direttamente dalla Commissione. Basti pensare al programma Daphne per il contrasto della violenza sulle donne poi confluito nel programma Diritti, eguaglianza e cittadinanza; oppure il programma Progress, poi confluito in Easi e che hanno finanziato diversi progetti pilota per l’inclusione socio-lavorativa delle donne. Molto rilevante anche il programma Horizon2020 – il principale programma di ricerca e innovazione dell’Unione europea  che prevede l’integrazione del principio di genere in tutto il ciclo del progetto: dai team di ricerca al suo contenuto.

Da non dimenticare il Piano d’Azione sul Genere nella Cooperazione Internazionale incentrato sulla lotta alla violenza di genere, all’emancipazione del ruolo femminile e alla promozione delle donne nella sfera socioeconomica. Un importante valore aggiunto dei fondi e dei programmi europei risiede proprio nella promozione di migliori politiche a livello nazionale e regionale tramite la possibilità di sperimentare e di poterlo fare anche confrontandosi con altre esperienze, dato che gli scambi e la partecipazione a network e progetti transnazionali è un altro punto distintivo dell’azione europea. 

L'Europa che vogliamo

Sebbene il contributo di queste iniziative al raggiungimento della parità di genere sia ampiamente riconosciuto, non possiamo dimenticarne i limiti, soprattutto in termini dei progressi raggiunti, della loro efficienza e sostenibilità nel tempo.

Uno dei principali ostacoli che questa strategia ha incontrato sta proprio nella capacità delle amministrazioni di utilizzare i fondi. Sono quelle già più virtuose in partenza ad avere maggiore capacità di raggiungere gli obiettivi anche sulle pari opportunità.

Tali limiti dipendono dalle debolezze delle istituzioni europee e non dalla loro forza eccessiva come da alcune parti, non solo di ispirazione nazionalista, si sente proclamare. Sono tali debolezze che hanno portato all’approvazione nel 2015 dello Strategic engagement for gender equality 2016-2019 come una semplice strategia della Commissione e non più dell’Unione – dato che il documento non ha concluso con successo il percorso di approvazione da parte di Parlamento e Consiglio europei. Un downgrading, dunque, che è coinciso in primis con il momento di grave crisi economica da cui l'Europa iniziava appena a riprendersi, come a voler sottolineare la convinzione che la gender equality sia un 'bene di lusso' a cui bisogna rinunciare in situazioni di difficoltà economiche.

Tali limiti possono essere superati solo con un ulteriore rafforzamento del ruolo delle politiche e delle istituzioni che fino a oggi sono state centrali nella promozione della gender equality – ad esempio l’unità per l’uguaglianza di genere presso la Commissione e il FEMM Committee nel Parlamento europeo.

Per certi versi una minor attenzione alla gender equality è coincisa con un indebolimento del ruolo della Commissione e del Parlamento a favore del Consiglio dell'Unione europea, organo rappresentativo delle istanze dei governi. Tale organo essendo legato strettamente agli andamenti elettorali nazionali ha maggiori difficoltà a trovare accordo su temi che possono essere molto rilevanti per la gender equality.

Per esempio, fu proprio il consiglio a bloccare la prima direttiva sul work-life balance nel 2017 a causa dell’opposizione di alcuni governi conservatori che non hanno voluto, tra le altre cose, alienarsi il consenso delle organizzazioni datoriali. Un altro male che affligge l’Unione è la burocrazia autoreferenziale mossa da logiche politiche interne spesso messe in atto da interessi lobbistici nazionali – che però non soffoca solo la gender equality ma le istituzioni europee in generale.

Un rafforzamento delle istituzioni europee (Parlamento e Commissione in primis) e la loro maggior indipendenza dai governi e dai gruppi di interesse economici oligopolistici o monopolistici e illiberali appare prioritaria per offrire nuova linfa all’Unione europea e alle pari opportunità.  

Benché molto sia già stato fatto per la parità di genere, molto ancora rimane da fare e a tal fine è di primaria importanza promuovere un’Europa forte e lungimirante. Un'Europa che faccia da sponda con cui dialogare, magari meno burocratica e sempre più aperta al confronto con esperti e società civile. Affinché questo sia possibile è necessaria la massima attenzione e il massimo coinvolgimento della società civile europea. C'è bisogno di un presidio costante che 'da fuori' spinga a una sempre maggiore apertura delle istituzioni. Il rischio, altrimenti, è quello di creare un vuoto che potrebbe essere occupato da interessi meno sensibili alla vita delle donne e di tutti.

Note

[1] Si ricorda che la Strategia 2020 è monitorata all’interno del processo del Semestre Europeo che consiste nel processo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dell'Unione Europea, durante il quale gli Stati membri allineano le proprie politiche economiche e di bilancio agli obiettivi e alle norme convenuti a livello europeo (vale a dire dai governi dei paesi membri)

Riferimenti

Debusscher P. (2015)  Gender Equality Policies in the European Union: Economic Integration and Feminist Transnational Advocacy

Van der Vleuten A. (2007) The  Price  of  Gender  Equality.  Member  States  and Governance in the European Union, Aldershot, Ashgate

M.  Verloo  (ed.), (2017), Multiple  Meanings  of  Gender  Equality.  A  Critical  Frame  Analysis  of  Gender Policies in Europe, Budapest, Central European University Press