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La rivoluzione del "fai da te" nel panorama musicale degli anni '20 del duemila ha permesso un accesso ad ampio spettro all'industria discografica globale. Questo non è coinciso con una piena inclusione di soggettività e culture, cosa dicono i dati più recenti

L’industria discografica
non è davvero inclusiva

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Foto: Pixabay/ Rahul Yadav

Il panorama musicale dell’inizio degli anni 20 preannuncia una rivoluzione significativa rispetto alla presenza delle donne nell’industria discografica globale, soprattutto per quanto riguarda il mainstream. In un millennio caratterizzato dalla diffusione di piattaforme che facilitano lo scambio istantaneo e immediato di contenuti tra utenti, l’assottigliamento del confine tra chi produce e chi consuma ha dato l’opportunità a molti artisti di scalare le classifiche senza prima dover passare dalle grandi industrie discografiche.

Oggi sempre più artiste, persone non-caucasiche, appartenenti alla comunità Lgbtqi+ riescono a raggiungere il mainstream pubblicando e promuovendo progetti DIY (Do It Yourself, ossia “fai da te”)  su piattaforme social. Si pensi al successo virale del singolo Mooo! (2018) della rapper nera ormai di fama mondiale Doja Cat, in cui la cantautrice impersona una mucca e racconta della sua esistenza in barre dal tono arguto. O a Pretty Girl (2017) della cantautrice e produttrice indie pop Clairo, in cui l’artista, in un videoclip girato in camera con una webcam, dichiara a qualcuno che sarebbe disposta ad adeguarsi allo stereotipo della bella ragazza. Ciò che ha reso la canzone iconica è il fatto che la maggior parte dei commenti che ha ricevuto su YouTube vengono da giovani eterosessuali che dichiarano che grazie a Pretty Girl hanno trovato un modo per sentirsi delle “belle ragazze”.

Un altro grande successo mondiale diventato famoso tramite i social è Old Town Road (2019) di Lil Nas X, in cui il rapper nero e apertamente gay mette insieme due generi musicali, il rap e il country che si oppongono sia a livello di sonorità che ideologicamente, in quanto il primo è nato come valvola di sfogo delle popolazioni nere e latine del Bronx e il secondo trova le sue radici nel sud degli Stati Uniti e da lungo tempo viene associato al suo razzismo e ai suoi simboli. 

Questi esempi offrono un buono spunto per capire come si sta evolvendo il panorama musicale mondiale ma non costituiscono un campione sufficiente per delineare un ritratto esaustivo della scena musicale globale. Di fatto, anche se a livello di rappresentazione l’industria discografica internazionale sembra farsi sempre più inclusiva, i dati indicano che c’è ancora poco da celebrare. 

Lo dimostra l’ultima edizione della ricerca condotta dal think tank del Dipartimento di Scienze della comunicazione e di giornalismo dell’Università della California del Sud, l’Annenberg Inclusion Initiative.[1] 

Dal 2018, su commissione di Spotify, il gruppo si occupa di raccogliere e riordinare i dati legati all’industria musicale globale.  Per ogni anno a partire dal 2012, l’indagine ha selezionato le 100 canzoni più popolari delle classifiche Billboard 100 di fine anno e ne ha costituito un sample di ricerca.

La Billboard hot 100, il cui nome deriva dalla rivista musicale settimanale Billboard, fondata nel 1894 da William Donaldson and James Hennegan, è la classifica musicale settimanale più importante dell’industria discografica statunitense. Ogni settimana vi vengono elencati i 100 brani più popolari negli Stati Uniti, tenendo conto di trasmissioni radiofoniche, numero di ascolti sulle piattaforme digitali, visualizzazioni su YouTube e vendite. Questa classifica viene considerata come una delle più accurate al mondo ed è importante perché il mercato discografico statunitense domina questo settore a livello mondiale.

L'obiettivo dei rapporti annuali della USC Annenberg Inclusion Initiative è quello fornire un elenco di dati disgregati per genere e razza relativi ad artisti e artiste, autori, autrici e produttori e produttrici che hanno partecipato alla creazione e all’esecuzione delle canzoni più popolari del decennio preso in esame.

Sui 1.797 artisti intervistati nell’ultima edizione, nessuno ha dichiarato di avere un'identità di genere non-binaria. Le donne sono 388, ossia il 21,6% del totale. E rappresentano il 30% dei solisti, il 7,1% dei duo, il 7,3% delle band.

Sul totale dei brani considerati dalla ricerca, inoltre, le donne rappresentano soltanto il 12,6% dei 1.854 autori e il 2,6% dei 1.291 produttori individuati nel campione.

Questi dati indicano che le donne e le persone di identità di genere non-binaria, rispetto agli uomini, sono in forte minoranza in questo settore. In particolare, si nota che cantanti e musiciste hanno molte più probabilità di raggiungere il successo come soliste e in ruoli di esecuzione piuttosto che autoriali o di produzione.

Effettivamente, tra i 51 gruppi del campione, soltanto due erano composti unicamente da donne, 13 erano misti (donne e uomini) e i 36 restanti composti esclusivamente da uomini. Dei due gruppi di donne contati in questa ricerca ne viene esplicitato solo uno, le Fifth Harmony. 

I tre gruppi più popolari delle classifiche musicali degli ultimi nove anni, ossia i Maroon 5 (con 14 hit), i Migos (9 hit) e gli Imagine Dragons (8 hit), sono tutti composti unicamente da uomini. Il gruppo di donne più popolare, le Fifth Harmony non soltanto conta solo tre hit ma è si è anche sciolto nel 2018. 

Si può intuire che l’altro gruppo di sole donne al quale si riferisce questo report sia il gruppo britannico Little Mix, il cui quarto album Glory Days ha battuto Spice delle Spice Girls a livello di permanenza nella top 40 britannica dei dischi più venduti negli ultimi venti anni da un gruppo di sole donne. Questo gruppo ha attirato una grande attenzione mediatica negli ultimi due anni poiché, dopo anni di bullismo online, Jesy Nelson, una delle sue quattro componenti, ha finito per lasciare la band nel dicembre del 2020. 

Se guardiamo alla percentuale di autrici presenti nelle classifiche degli ultimi nove anni (12,6%), si osserva inoltre che, secondo il rapporto di quest’anno, queste compaiono principalmente nei crediti delle canzoni di musica Dance/Elettronica (20,5%) e Pop (18,7%). Invece, per quanto riguarda i generi nei quali attualmente le artiste, specialmente quelle provenienti da minoranze etniche (52%), riscontrano più successo, ossia l’Hip-Hop/Rap e l’R&B, le donne rappresentano rispettivamente il 6,3% e il 9,1% di tutti gli autori.

Passando alle produttrici, vale a dire il 2,6% di tutti i produttori del campione composto dalle classifiche Billboard 100 di fine anno del 2012, 2015, 2017 e dal 2018 al 2020, i dati si fanno ancora più allarmanti.

In effetti, nonostante la task force su diversity e inclusion della Recording Academy abbia lanciato un programma chiamato Women in the mix pledge nel 2019, il cui obiettivo è quello di promuovere le pari opportunità per le produttrici e per le ingegnere del suono, sollecitando “qualsiasi soggetto responsabile o coinvolto nella selezione e nell'assunzione di produttori e ingegneri di impegnarsi a prendere decisioni di assunzione solo dopo aver considerato una lista di candidati che include almeno due donne”, i dati restano puntualmente sotto il 3%. 

Infine, delle 33 produttrici del campione di 6 anni preso in esame, soltanto 9 provengono da minoranze etniche.

In un articolo scritto da Emily Fox, Sound & vision: why only 2% of music producers are women, pubblicato sul sito della radio non-profit statunitense KEXP nel 2019, il musicista e produttore John Vanderslice, proprietario dei Tiny Telefone Studios di San Francisco e Oakland, e la cantautrice, musicista e produttrice Sarah Tudzin, front-woman della band Illuminati-Hotties, concordavano sul fatto che se le donne rappresentano una percentuale così bassa dei produttori e ingegneri del suono non è perché sono scarse o assenti. 

Secondo Tudzin ciò accade perché spesso le donne non vengono promosse in lavori che valorizzano le loro abilità musicali a livello creativo e gli artisti, sia uomini che donne, tendono a gravitare attorno agli stessi produttori uomini già affermati e riconosciuti all’interno dell’industria musicale, contribuendo all’esclusione e allo sminuimento del lavoro delle donne all'interno di questo frangente dell’industria discografica su scala globale.

Nella ricerca condotta dalla psicologa e ricercatrice del SEA Institute di Milano, Alessandra Micalizzi, e presentata in occasione della conferenza Women in music, progetti e riflessioni sull'industria musicale italiana trasmessa il 4 giugno scorso dal SAE Institute, vengono delineati ulteriori fattori psicologici, socio-culturali ed economici del gender gap musicale.[2]

La ricerca mostra che in effetti le donne in questo settore non solo vengono sottovalutate, ma devono far fronte a un continuo scrutinio sia all'interno dell’industria stessa che da parte della loro audience rispetto a fattori che trascendono le loro competenze. Artiste, produttrici, ingegnere del suono, tecniche, esperte di marketing e promozione entrano nel settore con la voglia e la necessità di mostrare le loro competenze, la loro capacità di innovazione e la loro autonomia e invece si ritrovano immerse in un ambiente intriso di cultura patriarcale, e pervaso di maschilismo. 

Le lavoratrici dell’industria musicale sono in perenne lotta con se stesse, nel sostenere il peso di un ambiente in cui le loro competenze vengono costantemente messe alla prova anche nel condurre compiti ordinari, come se dovessero dimostrare il doppio delle abilità affinché i loro meriti vengano riconosciuti, e spesso sono vittime di un’ironia fuori luogo, che punta al loro aspetto fisico, genera frustrazione e può ledere l’autostima.

C’è da considerare, poi, che le donne non vengono soltanto discriminate dal vivo e da colleghi e ascoltatori: l’AI engineer e ricercatrice per Musixmatch, Maria Stella Tavella, intervenuta alla conferenza SAE, ha spiegato che spesso gli algoritmi delle piattaforme di streaming musicale favoriscono gli uomini, sintomo della forte interiorizzazione di una cultura maschile che fa da pilastro nella produzione e riproduzione di un certo tipo di “piacere d’ascolto”. 

Come in molti altri settori, purtroppo, mentre agli uomini viene semplicemente richiesto di essere competenti, alle donne viene richiesto di essere competenti, belle, calorose, piacevoli, dotate di una certa moralità e, soprattutto, di non avere figli – non è un caso se il divario tra donne e uomini in ruoli di rilievo inizia a divaricarsi proprio tra i 18 e i 35 anni, per poi aumentare ancora dopo i 35, ci raccontano i dati sul mercato discografico italiano diffusi tempo fa dall'Istituto Nuovo Imaie.

Dunque, se le donne non sono visibili nei settori della musica non è perché non sono capaci, ma perché sanno bene che dovranno faticare per affermarsi in ambienti figli di un mondo strutturalmente fallace che ancora troppo spesso riduce chiunque non sia un uomo bianco “cisgender” a una variabile di minoranza.

Note 

[1] Aa. Vv., Inclusion in the Recording Studio? Gender and Race/Ethnicity of Artists, Songwriters & Producers across 900 Popular Songs from 2012-2020, USC Annenberg, 2021

[2] Alessandra MicalizziGender Balance: Perché le donne nell'industria musicale sono solo il 27% tra gli artisti, il 12,5% tra i compositori e il 2,6% nella produzione?, SAE Institute, 2021

Leggi tutto lo speciale Taci anzi canta: le donne nell'industria discografica