Dati

La relazione del Ministero della Salute sull'applicazione della 194 ci dice ancora troppo poco sull'obiezione di coscienza, una facoltà prevista per legge solo a livello individuale, e che nel corso degli anni ha assunto la forma di un'omissione di soccorso da parte di intere strutture

Obiezione di coscienza,
i dati sono insufficienti

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Foto: Unsplash/ Amanda Dalbjörn

Ogni donna che decide di intraprendere un’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) inizia il suo iter facendo un colloquio con un medico. Nel corso di questo colloquio la donna deve fornire i propri dati sul livello d'istruzione, occupazione, stato di famiglia, e altre informazioni che la riguardano. Questo per permettere al Ministero della Salute di pubblicare annualmente una relazione sull’attuazione della legge 194 del 1978 con l'obiettivo di informare la popolazione sul tema. Obiettivo che però, nella maggior parte dei casi non viene raggunto.

Il primo aspetto allarmante è il considerevole ritardo con cui la relazione viene presentata ogni anno. Se infatti il documento dovrebbe essere pubblicato nel mese di febbraio, quest’anno, ad esempio, è stata ritardata al 17 settembre e presenta i dati relativi al 2019 insieme a minime valutazioni preliminari del 2020.

Inoltre, se i dati delle donne che fanno ricorso all’Ivg vengono raccolti meticolosamente per permettere una profilazione dettagliata delle loro caratteristiche, lo stesso non avviene per i dati relativi al personale sanitario che si occupa o si dovrebbe occupare delle interruzioni volontarie di gravidanza. Una raccolta sbilanciata, insomma, che mette sotto la lente di ingrandimento le donne ma mantiene nell’ombra il personale sanitario. Ne consegue, più che altro la promozione di una disinformazione.

A una prima lettura dell'ultima relazione, l’attenzione cade subito sulle continue frasi in grassetto che sottolineano una diminuzione del numero delle interruzioni volontarie di gravidanza in tutte le aree geografiche, in tutte le classi d’età - tra le minorenni, tra le donne con precedenti esperienze abortive, tra le donne straniere.

Dei 14 punti di analisi presenti, però, 11 sono relativi alla profilazione delle donne e solo 3 trattano temi strutturali. Questi ultimi sono: il ricorso al consultorio familiare, il ricorso all’aborto farmacologico e, come ultimo, i dati relativi all’obiezione di coscienza. Vediamoli nel dettaglio. 

Per il 2019, in linea con gli anni precedenti, risulta prevalente il ricorso al consultorio familiare per il rilascio del documento/certificazione necessari alla richiesta di Ivg (44,2%), rispetto agli altri servizi (medico di fiducia: 19,9%, servizio ostetrico-ginecologico: 33,4%).

Il ricorso all’aborto farmacologico varia molto tra le regioni sia per quanto riguarda il numero di interventi sia per il numero di strutture che lo offrono. Il confronto nel tempo evidenzia un incremento continuo dell’uso di mifepristone e prostaglandine esteso ormai in tutte le regioni.

Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, nel 2019 il fenomeno ha riguardato il 67% dei ginecologi, il 43,5% degli anestesisti e il 37,6% del personale non medico, valori in diminuzione rispetto a quelli riportati per il 2018, con ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie. L’analisi dei carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore non sembra evidenziare particolari criticità nei servizi di Ivg, a livello regionale o di singole strutture ospedaliere.

Questi dati non vengono messi in relazione con quelli relativi al numero di Ivg effettuate, né vengono messi in relazione tra di loro. Così, il numero di obiettori tra i medici di base o tra il personale ostetrico e ginecologico non viene collegato con il dato relativo ai ricorsi al consultorio. Una comparazione che potrebbe spiegare la decisione delle donne di rivolgersi al consultorio (iter molto più insicuro e impersonale rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare rivolgendosi al proprio medico di famiglia).

Questo significa che l’intera relazione presenta una diminuzione delle Ivg che si basa solamente sui numeri di interruzioni volontarie effettuate per età, per area geografica, per nazionalità delle donne, mentre il sistema sanitario non viene preso in considerazione. Al contrario, il Ministero della Salute sembra sminuire quelli che sono a tutti gli effetti i dati strutturali più allarmanti: l’obiezione al 67% dei ginecologi, al 43,5% degli anestesisti, al 37,6% del personale medico e il numero variabile di strutture che offrono l’aborto farmacologico.

Quest’ultimo dato merita una breve riflessione: il numero esatto di strutture che offrono l’aborto farmacologico manca. Siamo davanti a un dato strutturale importante, che non dovrebbe essere lasciato vago da una relazione che si propone di informare la cittadinanza sull’attuazione della legge 194. In particolare, la somministrazione dell’aborto farmacologico non dovrebbe essere variabile, ovvero demandata alla decisione individuale del personale medico delle strutture, ma dovrebbe essere regolamentata per legge.

Ad alcune non sfuggirà il paragone con i dati forniti annualmente dalla Direzione Centrale della Polizia sul numero di reati come atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi e violenze sessuali. Mentre nei documenti istituzionali leggiamo che questi diminuiscono, la realtà dei centri antiviolenza ci racconta che a diminuire sono le denunce e non di reati, questo per una insufficienza di strutture e fondi che possano effettivamente sostenere le donne. 

Così per le interruzioni volontarie di gravidanza: il ministero ci dice che il numero è in diminuzione, ma tralascia quanto riportato dalle donne e cioè che abortire è un iter estremamente difficile, fino a diventare impossibile nei casi più estremi. La difficoltà nasce dalla mancanza di informazioni, in primis proprio dal Ministero della Salute, dalla mancanza di strutture e dall’alto numero di obiettori di coscienza.

Come ha decretato il Comitato Europeo per i Diritti Sociali, a distanza di due anni dall’ultima sentenza, l’accesso all’interruzione di gravidanza in Italia risulta non ancora garantito. "In Italia permangono disparità d'accesso all'interruzione di gravidanza a livello locale e regionale e i dati forniti dal governo non dimostrano che il personale medico specializzato nel fornire il servizio sia sufficiente" dice infatti il comitato. E aggiunge: "il governo non ha fornito alcuna informazione sul numero o percentuale di domande d'aborto che non hanno potuto essere soddisfatte in un determinato ospedale o regione a causa del numero insufficiente di medici non obiettori".[3]

In ultima analisi, le donne ci dicono che abortire è un’esperienza resa spesso terribile proprio da quel sistema sanitario che dovrebbe proteggerle invece che condannarle,[1] come implicitamente inteso nella stessa relazione del Ministero quando sostiene che il consultorio non offre solo il servizio di interruzione volontaria di gravidanza "ma svolge un importante ruolo nella prevenzione dell’Ivg e nel supporto alle donne che decidono di interrompere la gravidanza, anche se non in maniera uniforme sul territorio". 

Proprio in presenza di questa scarsa uniformità, per rispondere alla cittadinanza e al Comitato Europeo per i Diritti Sociali è necessaria un’analisi dei dati strutturali presentati per regione.

In particolare, ciò che manca nella relazione sono dati più dettagliati relativi al personale medico: non solo il numero di obiettori divisi per regione e per professione, ma anche per numero di anni di servizio, e dati più specifici relativi alle strutture atte a effettuare le interruzioni volontarie di gravidanza. A mancare è soprattutto una connessione tra questi dati.

Questi dati infatti andrebbero messi in relazione tra loro, in modo da presentare la distrubuzione del personale obiettore anche per tipologia di struttura. Infine, le informazioni relative al personale medico e alle strutture dovrebbero essere messe in connessione con il numero di interruzioni volontarie di gravidanza effettuate.

Una relazione il cui scopo è quello di informare la cittadinanza sull'attuazione di una legge, inoltre, dovrebbe riportare le situazioni dove le tutele garantite dalla legge sono in pericolo. Infatti, la legge prevede l’obiezione di coscienza, ma impone dei limiti: gli obiettori non vengono autorizzati a omettere di prestare l’assistenza prima, ovvero successivamente ai fatti causativi dell’aborto, in quanto devono comunque assicurare la tutela della salute e della vita della donna, anche nel corso dell’intervento di interruzione della gravidanza. 

Questo principio, evidenziato dalla Cassazione, è già stato esplicato nello stesso art.9 della legge 194, quando si dice che: "gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8".

Di fatto, anche se prevista per legge a livello individuale, l’obiezione di coscienza non può costituire un impedimento alla tutela della salute della donna e le strutture ospedaliere sono obbligate per legge ad assicurare l’effettuazione delle Ivg e a tutelare in primis la salute delle donne.

Il fatto che un’obiezione professionale al 70% sul territorio nazionale, e un totale di 356 strutture (su 564 con reparto di ostetricia e ginecologia o solo ginecologia) che effettuano interruzioni volontarie di gravidanza impedisca di tutelare ciò che la legge stessa impone dovrebbe essere il dato maggiormente relazionato al parlamento e a tutta la cittadinanza. Questo, affinché vengano prese maggiori tutele per il controllo della percentuale di obiezione da un lato e per l’aumento di strutture pubbliche e il miglioramento del servizio dall’altro.

Per ora, più che informare la popolazione sull'attuazione della 194, la relazione ministeriale sembra soprattutto impegnata a profilare le donne che interrompono una gravidanza.

Note

[1] Basti pensare alla campagna: In nome di tutte, pubblicata su L’Espresso

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