Politiche

Una grazia temporanea per le finanze pubbliche di Italia, Francia e Belgio; e l'annuncio roboante di un piano di investimenti che però ha ben poco dietro la facciata. Forse qualcuno in Europa ha capito di aver imboccato una strada sbagliata, ma non si decide a prenderne un’altra. E nell’attesa, si perde tempo

Politiche inutili. Aspettando
che l'Europa cambi rotta

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Segnali contrastanti arrivano dalla politica economica europea. Il primo è sul fronte della finanza pubblica: la Commissione europea ha graziato Francia, Italia e Belgio, concedendo loro ancora tre mesi per riportare i bilanci in linea con i criteri fiscali. Il secondo riguarda il tanto atteso e annunciato rilancio della crescita: il piano Juncker, presentato come una manovra da 315 miliardi di euro. Apparentemente, sono due piccoli passi in avanti. Ma che nascondono una irresolutezza di fondo, da parte delle autorità politiche dell’Unione, ad affrontare la gravità della situazione. Così le contromisure restano per ora limitate all’azione della Bce: che da sola può riuscire a evitare il peggio, ma non traghettarci verso il meglio.

Non solo GIPSI

Il bilancio pubblico italiano è in buona compagnia, con quelli di Francia e Belgio, nel gruppo dei “sorvegliati speciali”: contro i quali per ora la Commissione europea non ha avviato i provvedimenti previsti dal Trattato di stabilità e crescita in caso di inadempienza, rinviando la questione a marzo e dandoci così qualche mese di respiro. È interessante rilevare come nella lista dei cattivi non ci siano più solo i soliti paesi incriminati, definiti in sigla, sbrigativamente e con intenzioni non benevole, come Piigs o Gipsi (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), ma anche paesi centrali, quali appunto Francia e Belgio: tutti in crescente difficoltà nel rispettare i parametri europei in tema di rapporto tra deficit e debiti pubblici e prodotto interno lordo. Il che ha comportato un qualche spostamento politico della questione, non camuffato a sufficienza dietro l’apparente tecnicità delle procedure europee.

Nel motivare la sua “clemenza”, la Commissione per gli Affari economici ha dichiarato che, sebbene tutti e tre i paesi abbiano violato le regole di bilancio, si sono tutti impegnati, “ai più alti livelli di governo” a introdurre entro il 2015 misure capaci di risanare le loro finanze. Questo, sebbene la Francia abbia già ripetutamente violato il limite del 3% di disavanzo su Pil, si preveda che lo farà anche l’anno prossimo (con un disavanzo superiore al 4%), e il governo francese abbia avvertito che non prevede di poter ottemperare alle regole fiscali prima del 2017.

Politica o economia?

Quali sono le ragioni di una così chiara contraddizione fra evidenza e applicazione delle regole? Certamente ragioni politiche: l’asse franco-tedesco è un bastione su cui si fonda l’intera costruzione europea, e la Francia è un alleato cui la Germania non può rinunciare. Inoltre, la crescente forza della destra francese è tale da non poter essere trascurata senza rischi, per la Francia e per l’Europa.

Ma potrebbero esserci anche ragioni economiche, o meglio di teoria economica. I bastioni dell’austerità sembrano crollare, o almeno mostrare evidenti crepe nelle mura, uno dopo l’altro. Dopo l’Fmi, anche l’Ocse si è prodotta in un dietrofont in materia di politica economica. Il 26 novembre il suo segretario generale, Angel Gurria, ha ribadito che i governi dei paesi dell’euro dovrebbero lasciare maggior tempo ai rispettivi paesi per riportare i conti pubblici in linea con le regole europee, e Catherine Mann, la capo economista dell’organizzazione, ha stimato che, nelle attuali circostanze di depressione, ogni punto percentuale di riduzione del disavanzo porterebbe a 2 punti percentuali di riduzione dell’occupazione [1]. Queste esortazioni si aggiungono  alle “prediche inutili” del presidente della Banca centrale europea, che ha ripetutamente promesso di fare quanto necessario, a seconda dei casi, per evitare il collasso dell’euro, o i rischi di deflazione. Nonostante le sue dichiarazioni, la Bce è stata l’unica fra le maggiori banche centrali ad aver registrato una riduzione dell’attivo, di fatto  riducendo lo stimolo monetario anche in presenza di una contrazione del credito. L’ultima promessa di Draghi, di fare quanto dovuto per scongiurare lo spettro della deflazione attraverso un’espansione del proprio bilancio per mille miliardi di euro circa, ancorché tardiva, è comunque benvenuta; e ha infatti avuto una reazione entusiasta dei mercati, nell’immediato: ma quanto può durare quest’ottimismo; e, soprattutto, quale può essere la trasmissione di questa manovra all’economia reale? Su questo, va ricordato che la politica monetaria è come una corda: si può tirare, ma non si può spingere. Per questo il presidente della Bce da un po’ di tempo sollecita i governi dell’eurozona a sostenere lo stimolo monetario con politiche volte ad aumentare gli investimenti pubblici.

Il piano Juncker è la spinta giusta?

Purtroppo, il progetto messo a punto dal presidente della Commissione Ue Juncker non costituisce una risposta adeguata a tale invito, né pare essere all’altezza della situazione. Pubblicizzato come una manovra da 315 miliardi di euro a sostegno di progetti di infrastrutture pubbliche come trasporti, comunicazioni, energia, scuole per un periodo di 3 anni, questo piano in realtà non solo non porta risorse nuove, ma si basa sugli effetti moltiplicativi di 21 miliardi di fondi, già stanziati nel bilancio dell’Ue ma riprogrammati, ossia spostati da una posta all’altra del bilancio: diventeranno  garanzia dei crediti che la Bei (Banca europea degli investimenti) dovrebbe concedere al fine di sollecitare investimenti privati aggiuntivi.

In concreto, dovrebbe succedere questo: l’Unione Europea stanzia 2 miliardi di fondi freschi, ai quali aggiunge 14 miliardi di fondi dirottati dai fondi strutturali (già stanziati), e chiede alla Bei di metterne altri 5, per un totale appunto di 21 miliardi. Questi confluiscono in un nuovo fondo, il Fondo europeo per investimenti strategici (European Fund for Strategic Investments) che dovrebbe essere operativo da metà 2015. Il nuovo Fondo dovrebbe essere in grado di concedere fino a 60 miliardi di euro in crediti per progetti di investimento nei settori sopra-menzionati. I percettori di questi fondi, soggetti privati, pubblici o partnership pubblico-privato, a loro volta potrebbero usarli come garanzia per la raccolta  di altre risorse finanziarie sul mercato. Si arriva così, con un doppio sistema di leve finanziarie, alla stima di 315 miliardi, che secondo le stime del piano, indurrebbero investimenti addizionali pari al 2% del Pil dell’Unione e alla creazione di 1,3 milioni di posti di lavoro addizionali.

Anatre ed altri animali

È diffuso lo scetticismo circa la possibilità che tali garanzie potranno fare davvero la differenza per investimenti che non erano stati giudicati convenienti in loro assenza (si veda l’articolo di Tito Boeri: “Datemi un’anatra di appoggio e vi solleverò l’Europa”, e quello di Paolo Pini e Roberto Romano “Illusionisti a Bruxelles”). Le imprese non sono enti di beneficienza e fanno investimenti se possono prevedere un profitto. Con la previsione di tassi di crescita per l’eurozona nell’ordine di qualche decimale, e previsione di aumento dei prezzi vicino allo zero (a novembre l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto dello 0,3% rispetto all’anno precedente, in ulteriore riduzione rispetto allo 0,4%di ottobre), solo un “eroe” potrebbe impegnare risorse per investimenti. In mancanza di un’adeguata risposta delle imprese, ci si può chiedere anche quanto sarà conveniente per gli stati partecipare al nuovo fondo: cosa che in teoria potrebbero fare per sfuggire dalla “tagliola” dell’austerità, dato che le spese per investimenti fatte attraverso il fondo strategico sarebbero sottratte dal calcolo del rapporto tra deficit pubblico e Pil. Una prospettiva interessante, a patto di poter attivare, con quel fondo, investimenti diretti nell’economia nei settori più sensibili e reattivi in termini di innovazione e crescita dell’occupazione: a tal fine, sarebbe cruciale ridiscutere l’elenco dei settori strategici, e, sulla scia di proposte provenienti da vari settori e anche qui a inGenere più volte motivate, inserire le infrastrutture sociali tra quelle strategiche, nelle quali attivare gli investimenti pubblici. Ma, a fronte del meccanismo di finanza creativa introdotto dal piano Juncker, è lecito chiedersi: potrà funzionare? Il reddito di un paese è fondato su consumi, investimenti, esportazioni e spesa pubblica: e, nelle condizioni attuali, nessuna di queste componenti è capace di sollevare l’economia, per ragioni di fiducia o di ideologia. “Chi investirà se non c’è domanda?”, si è chiesto qualche giorno fa un veemente editoriale di The Guardian che invitava metaforicamente a usare le bombe, non gli elicotteri: “Bombardare Germania, Francia, Italia, Grecia, e l’intera eurozona con monete, cash, qualsiasi cosa possa far aumentare la domanda: facendo arrivare i fondi alle famiglie, non alle banche”.

E qui è forse la seconda, più nascosta, ragione della decisione della Commissione di graziare, per il momento, i paesi che hanno violato il patto (cosa che non era stata concessa ai GIPSI). Potrebbero essere i contorcimenti di una burocrazia che si è resa conto, alla fine, di essersi infilata in un cul de sac -  imponendo regole di bilancio rigide e “stupide” che stanno ammazzando un’economia dopo l’altra - ma non sa come uscirne senza perdere la faccia. Non sarebbe dunque meglio per tutti prendere atto del danno che hanno fatto e stanno ancora facendo, sedersi intorno a un tavolo e rinegoziarle, come suggerito da diversi commentatori di recente. Ma qui c’è l’incognita Germania: infatti, in Europa come nella orwelliana Fattoria, “tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.



Note

[1] David Jolly, OECD warns of fallout from eurozone’s weakness, INYT, 26-11-2014