Politiche

A cinque anni dall'entrata in vigore della legge Golfo-Mosca sulle quote in azienda capiamo perché rappresenta un caso virtuoso nel panorama legislativo italiano

Quote in azienda,
una legge riuscita

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Foto: Unsplash/ Tim Gouw

La legge 120/2011, che ha imposto le quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate e partecipate, è stata una delle più discusse della scorsa legislatura. In molti hanno sollevato dubbi sulla sua utilità, in molte sulla sua opportunità. Diverse associazioni di donne l’hanno apertamente osteggiata, considerandola uno strumento che sanciva l’inferiorità delle donne rispetto agli uomini, la loro incapacità di farcela da sole. Un argomento che sarebbe stato valido se le condizioni di partenza fossero state eque, se le donne fossero state nelle medesime condizioni degli uomini di accedere al mercato del lavoro, costruire la propria carriera, aspirare a posizioni di vertice sulla base del proprio impegno e del proprio talento.

5,9: è il numero che smonta, da solo, questo argomento. 5,9 è la percentuale di donne che sedevano nei consigli di amministrazione nel 2008. Un numero decisamente troppo basso per poter non vedervi un problema sistemico, soprattutto se comparato con altri dati, quelli delle donne laureate, ad esempio. È un numero che racconta la storia di una serie di problemi, che certamente non possono essere circoscritti all’interno delle politiche aziendali: sono molto più capillari e diffusi, nascono e si nutrono di un’infinità di discriminazioni, implicite ed esplicite, che iniziano quando si è molto piccoli, spesso proseguono in famiglia, si consolidano nella propria vita sociale e nell’ambiente mediatico a cui siamo esposti, nelle agenzie di socializzazione primarie come la scuola, e producono conseguenze sulle nostre scelte più importanti, come il corso di studi da scegliere all’università o l’investimento da fare o non fare sul nostro sviluppo professionale.

Un numero così piccolo, insomma, da raccontare molto. La legge, nel solco dell’esempio di altre affirmative action, ha imposto una discriminazione positiva, per accelerare un cambiamento che, secondo alcuni studi, sarebbe avvenuto spontaneamente tra circa un centinaio d’anni e che, forse, non sarebbe avvenuto mai[1].

Analizzando i dati delle società quotate in borsa, il successo della legge è evidente: le aziende al primo rinnovo hanno avuto il 27,8% di donne (l’obbligo di legge era il 20), mentre le aziende che sono già al secondo rinnovo contano il 36,9% di donne (anche in questo caso, più dell’obbligo di legge, il 33,3%). Nelle 8 aziende che hanno già svolto il terzo rinnovo, il dato è sempre positivo: 35,4 %. 

Non solo: le donne sono mediamente più giovani (50,9 anni a fronte dei 58,9 degli uomini) e più istruite (l’88,5% di loro ha una laurea, a fronte dell’84,5% dei colleghi, e ben il 29,7% di loro ha anche un titolo post laurea, negli uomini la percentuale si ferma al 16,7%).

Per quanto riguarda la provenienza, vi sono alcuni dati positivi e altri negativi. Tra i primi, il fatto che le donne abbiano, rispetto agli uomini, meno frequentemente legami familiari con l’azionista di controllo della società (nel 13,17%, 16,9 per cento per i colleghi). Non è, invece, un dato positivo il fatto che solo il 54% delle donne siano manager, mentre lo è il 76,5% degli uomini. Questo, infatti, ha chiaramente un peso nella distribuzione dei ruoli esecutivi, rispetto ai quali il gap resta ancora tutto da colmare.

L’esistenza stessa di questi dati, infine, ci permette di passare dall’analisi del merito all’analisi del metodo della legge Golfo-Mosca, che rappresenta un’eccellenza nel panorama legislativo italiano.

In primo luogo, perché l’approvazione della legge non è stata la fine del viaggio ma il suo inizio: in questi cinque anni trascorsi dalla sua entrata in vigore (avvenuta ad agosto 2012), i suoi effetti sono stati costantemente monitorati grazie al progetto europeo Women mean business and economic growth, coordinato dal Dipartimento Pari Opportunità e dal Dondena Centre, guidato da Paola Profeta, che spesso ne ha raccontato il lavoro e i dati raccolti proprio qui su InGenere. Il monitoraggio e la valutazione sono due fasi essenziali del ciclo delle politiche pubbliche ma, purtroppo, ben lontane dall’essere prassi nella legislazione del nostro paese.

In secondo luogo, perché la legge ha una data di scadenza, che coincide con i tre mandati: dal quarto rinnovo del proprio consiglio di amministrazione, una società quotata non sarà più obbligata per legge a rispettare un’equa rappresentanza di entrambi i generi ma l’auspicio è che continuerà a farlo perché in questi anni si è innescato un cambiamento culturale dal quale dovrebbe essere difficile tornare indietro. Siamo ben lontani, insomma, dalla costituzione di una riserva indiana permanente. 

Infine, elemento non meno importante, perché questa legge è nata, è stata approvata ed è vissuta in un costante e fertile dialogo con la società. La partecipazione delle tantissime associazioni, delle singole donne in posizioni di rilievo, di parti del mondo accademico e di quello mediatico è stata, infatti, essenziale sia nella fase di stesura della proposta di legge sia nella sua approvazione. La legge Golfo-Mosca è, ad oggi, una delle più ambiziose d’Europa su questo tema. Sia per la presenza di vere e proprie quote e non di soli meccanismi di incentivo, sia per la sua portata d’azione, che arriva anche alle società pubbliche, e ancora – soprattutto – per le pesanti sanzioni che comporta la sua mancata osservanza. Non a caso, l’allora Commissaria Viviane Reding l’aveva citata come modello all’epoca della presentazione dell’analoga proposta di direttiva europea.

Passati cinque anni dall’entrata in vigore della legge, sarebbe interessante studiare l’eventuale presenza e intensità degli effetti “a cascata” sulla popolazione non direttamente oggetto della legge stessa. La battaglia riguardo la rappresentanza di genere, infatti, non si esaurisce nel miglioramento del dato numerico ma poggia sull’assunto che un maggior numero di donne nei luoghi di presa di decisione possa comportare un cambiamento sostanziale nei contenuti e quindi, ad esempio, nel modello di leadership e nelle politiche aziendali, di cui beneficino tutte le altre donne, nell’azienda e, in senso più ampio, nell’intera società.

Riferimenti

Trova l’intrusa, mini-dossier Openpolis, marzo 2017

Note

[1] Del Boca D., Profeta P., Le quote di genere due anni dopo, lavoce.info, novembre 2013; si veda anche la stima del Gender Gap calculator del World Economic Forum

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