Dialoghi. Perché nelle agende dei governi si parla tanto di Stem, e cosa faciliterebbe davvero l'accesso delle ragazze a questi ambiti di studio? Ne parliamo con Nicole Ticchi, chimica farmaceutica e presidente dell’associazione She is a Scientist
Altri modi di
narrare la scienza
Su bambine, ragazze e donne nelle materie tecnico-scientifiche — le cosiddette "Stem": scienza, tecnologia, ingegneria, matematica —abbiamo moltissima ricerca: dati, ma anche riflessioni, esperienze di associazionismo con il coordinamento europeo della European platform for women in science (Epws), pratiche educative, oltre a un forte interesse politico.
Il tema donne e scienza, o donne e Stem, infatti, è presente in tutti i principali documenti programmatici a livello internazionale: si parla di rimuovere gli ostacoli alla piena partecipazione delle donne nelle scienze e nella tecnologia nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, ma è anche uno degli obiettivi della Commissione europea, così come un’azione prevista dal Dipartimento per le Pari opportunità e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
Le motivazioni per cui il tema genera tutto questo interesse sono diverse: primo fra tutti, il fatto che viviamo in una società altamente condizionata dalle tecnologie, che fa sì che l’esclusione delle donne dalla loro produzione si rifletta nel modo in cui queste ultime sono pensate e progettate. La seconda motivazione riguarda la polarizzazione generata nel mercato del lavoro dalla percezione che ci siano ambiti di studio, e quindi di lavoro, prettamente femminili o maschili, che si ripercuote nelle retribuzioni e nelle condizioni contrattuali, normalmente a favore della controparte maschile.
Anche le competenze hanno un forte peso: secondo uno studio del Centro europeo per lo sviluppo della formazione (Cedefop), che si occupa di studiare le competenze e il mercato del lavoro a livello europeo, tutte le professioni avranno bisogno di competenze digitali, anche quelle tradizionalmente femminili — pensiamo per esempio alle insegnanti; se le donne rimangono indietro nelle competenze digitali si troveranno svantaggiate rispetto a chi sa utilizzare le nuove tecnologie, e a disporre così anche di minori strumenti di contrattazione. Non da ultimo, le discriminazioni generano un enorme spreco di potenziale, talento e innovazione.
Per capire come affrontarle, vale la pena riflettere su come e perché si strutturano queste disuguaglianze: le differenze di genere nelle Stem avanzano a mano a mano che aumenta l’età e si divaricano progressivamente al momento della scelta dei percorsi di scuola secondaria di secondo grado e dei corsi di laurea, dove le donne si indirizzano perlopiù verso studi umanistici e gli uomini verso studi scientifici, tecnologici e matematici.
Alla fine dell’infanzia, le ragazze perdono autostima nei confronti delle loro competenze matematico-scientifiche (ce lo dice l'ultimo rapporto Ocse Pisa), per via dei condizionamenti operanti a livello sociale e familiare, e anche per quelli agiti dai e dalle docenti, che tendono a considerare le bambine meno portate e a valutare meno positivamente i loro risultati. A questi si aggiungono gli stereotipi delle imprese, dal momento che, come riporta sempre Almalaurea, in ambito tecnologico e scientifico fanno più fatica ad assumere donne.
Tuttavia, il discorso su donne, scienza e tecnologie va inquadrato in quello più ampio di come vengono codificati i ruoli di genere, che nella nostra società ricalcano la dicotomia pubblico/privato: gli uomini lavorano mentre le donne svolgono lavori di cura. In questa separazione sono gli uomini ad abitare lo spazio pubblico e le donne quello domestico; gli uomini sono razionali e le donne emotive (e quindi, in quanto tali, poco portate per le scienze). Gli stereotipi, intesi come idee rigide e separate dalla realtà, che diventano generalizzazioni, riproducono allora queste dicotomie.
Uno dei risultati di questa cultura condivisa è che in Italia lavora solo una donna su due, e la maggior parte si concentra in settori che potremmo considerare contigui al lavoro di cura: educazione, servizi alla persona, sanità.
E se guardare al presente non è il massimo dell'allegria, guardare al futuro è però incoraggiante: i dati sulle immatricolazioni universitarie del 2021 in Italia registrano un aumento delle iscritte alle facoltà Stem. Il nostro paese si attesta al 22% di ragazze che scelgono corsi scientifici sul totale delle iscritte. Inoltre, in base all’ultima ricerca realizzata da Ipsos, si rileva che le materie scientifiche e tecnologiche a scuola appassionano e incuriosiscono il 54% delle adolescenti.
Abbiamo qui provato a rispondere ai perché, e se la politica e i numeri ci danno ragione nel fotografare questa situazione, rimane la domanda più importante: cosa possiamo fare? Lo chiediamo a Nicole Ticchi, chimica farmaceutica, cofondatrice dell'associazione She is a Scientist.
Con altre giovani scienziate avete fondato un’associazione perché volete cambiare la narrazione sulla presenza e sul ruolo delle donne nella scienza. Vuoi spiegarci meglio cosa intendi e in che modo state provando a creare una nuova narrazione?
Abbiamo fondato She is a scientist nel 2017, come progetto editoriale. La maggior parte di noi ha una formazione in ambito Stem o scienze della vita e nella comunicazione scientifica, che è attualmente il nostro lavoro principale anche a livello individuale. Partiamo dal presupposto che la scienza è delle persone che la fanno. Abbiamo quindi voluto esplorare gli aspetti comunicativi e la percezione di queste persone e, in particolare, delle donne nella scienza, per provare a fornire una descrizione di chi è una scienziata e del perché il modo in cui ce la immaginiamo fa tutta la differenza del mondo. Occuparsi della rappresentazione delle donne nella scienza per cambiare le cose serve, perché questo incide su come le donne vengono percepite e su come si autopercepiscono, a partire dalle competenze fino al modo in cui collaborano al progresso scientifico. E questo incide, a sua volta, sull’accesso che le persone hanno a percorsi di questo tipo. Oggi fa ancora scalpore che siano le donne a fare le cose e non il fatto stesso che le cose vengano fatte: è un problema comunicativo, legato ai media, che però riflette perfettamente il nostro modo di pensare. Della serie “è stata una donna a fare una scoperta”, oppure "la donna che fa cose eccezionali”. Anche il livello di aspettative è influenzato da questo sistema di pensiero: per dire di una donna che fa cose eccezionali abbiamo bisogno di studiarla molto più a fondo di quanto non faremmo con un uomo, la domanda che ci viene è “cosa ha fatto di così straordinario? Perché è lì, se lo merita?”
Dovremmo considerarlo un fatto ordinario?
Non dovremmo trovare il modo di giustificare il fatto che ci siano donne nella scienza esaltandone le competenze e aspettandoci di avere tanti piccoli nuovi geni, ma valorizzare piuttosto il contributo di ognuna, incentivando ogni singolo apporto, apprezzando la diversità da ogni punto di vista. Proponiamo quindi approfondimenti sulle tematiche riguardanti il gender gap e cerchiamo modalità per comunicare la scienza in modo da valorizzare il contributo di chi la fa in modo più equo e meno stereotipato. E cerchiamo di capire come il linguaggio influenza la percezione e come giornalismo e media usano gli strumenti comunicativi per parlare di questo tema: quali aspetti vengono messi in luce, quali appellativi e quali toni si usano per raccontare le scienziate? L’aspetto positivo è che questi ragionamenti sono sempre di più frutto di studi, c’è ricerca nella scienza che se ne occupa, così come dietro alle nuove metodologie a livello didattico.
Se diciamo che non vanno cambiate le ragazze ma vanno cambiati i contesti, quali sono i cambiamenti che secondo te andrebbero fatti?
Lavorare sugli stereotipi e decostruirli è utile in ogni fase, a partire dalla didattica: il modo in cui viene raccontata la scienza e gli aspetti salienti a cui si dà importanza, le figure che vengono raccontate e l’impostazione di lavoro quando si propongono attività pratiche ha sempre un ruolo, anche se indiretto, nella costruzione della percezione che ognuno di noi ha della scienza. Infatti, la tendenza a "genderizzare" gli argomenti o a declinarli secondo stereotipi che hanno a che fare col genere rischia di far nascere preconcetti già da prima che i ragazzi possano rendersene conto. Dobbiamo quindi lavorare renderci più consapevoli dei pregiudizi che abbiamo e che possono influenzare le scelte che operiamo quando siamo davanti a ragazzi e ragazze. Ci accorgiamo insomma di chi sono le persone: a chi diamo più fiducia? Chi spingiamo di più? Chi proteggiamo dal rischio di fallimento? Perché lo facciamo?
Quali sono i pregiudizi e gli stereotipi più insidiosi da individuare per permettere che questa consapevolezza si diffonda negli ambienti di ricerca?
Ogni ambito della scienza ha il suo stereotipo, che spesso impone delle caratteristiche anche fisiche e comportamentali in cui non tutti si riconoscono. Nel settore digitale, soprattutto, c’è quello per cui, per poter avere successo e credibilità, devi in qualche modo essere “nerd”. Si creano dei modelli di comportamento, che per le donne sono ancora più costrittivi e autoesclusivi perché, per come è strutturata la nostra società, abbiamo sempre gli occhi molto più puntati sulle donne e, di nuovo, sulle loro caratteristiche fisiche e comportamentali. Vogliamo uscire dagli stereotipi e spesso lo facciamo imponendone altri: perché essere x quando puoi essere y, perché giocare con le bambole quando puoi giocare a fare la scienziata. La domanda che vogliamo che invece ci si ponga è: perché non entrambe le cose? Cambiare il contesto, quindi, vuol dire innanzitutto prendere coscienza dei limiti e dei pregiudizi, lavorare su quelli e mettere di conseguenza in atto strategie per evitare di influenzare i ragazzi e le ragazze più giovani. Come? Attraverso la formazione, continua, di insegnanti e famiglie.
Cosa ne pensi di una proposta formativa specifica solo per le ragazze, sei d’accordo?
A titolo personale, sono d’accordo: mi sembra importante che le ragazze si sentano “chiamate” a partecipare attivamente a tutte quelle attività in cui sono sottorappresentate. In alcuni contesti, come quello di classe, è giusto che l’intervento sia diretto a tutti. In altri, è meglio creare delle possibilità per colmare i divari esistenti, e questo include proposte specifiche per chi, ad esempio, vorrebbe partecipare alle attività di una certa disciplina ma magari, per costrutti esterni imposti dalla società, non si sente “abbastanza brava”, non pensa “di potercela fare”, o non crede “di poterlo fare”.
Questo articolo nasce dalla conversazione avvenuta in occasione della presentazione del progetto "Ragazze digitali" della Regione Emilia Romagna.
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