Mentre è in corso un processo di femminilizzazione del sistema sanitario, ci chiediamo qual è l'impatto sulle esperienze di cura e quale il prezzo da pagare in termini di identità e di carriera per le donne che scelgono di fare medicina

Al pronto soccorso ho trovato una dottoressa che m’ha levato dai pasticci.
Un medico di famiglia ce l’abbiamo sempre avuto, credo fosse bravo. Vabbè, in anni e anni l’avrò visto cinque o sei volte [...]. Poi anche lui è andato in pensione. È subentrata una dottoressa che credo sia brava.
La dottoressa di famiglia [...] è una brava dottoressa, veramente. Quello che non ha fatto per mia mamma...!
Bastano questi brevi stralci, tratti dalle interviste raccolte in un lavoro di ricerca pubblicato nel 2015 con Carocci, per dare conto dell’impatto che il processo di femminilizzazione della professione medica sta avendo sulle più comuni esperienze di cura.
Letture attente al genere sottolineano come le origini della presenza femminile in medicina si siano contraddistinte per l’assenza di ostacoli normativi all’iscrizione e alla partecipazione delle laureate alla professione. In una società che via via riconosceva maggior valore alla salute e prestigio crescente alla medicina, tale “intenzione paritaria” risultava però smentita dalle consuetudini e dalle pratiche, con la messa in atto di meccanismi di esclusione non istituzionali ma per questo non meno potenti. A parità di titoli e qualifiche conseguite, gli spazi della professione si rivelavano di fatto preclusi alle donne, di assai ardua frequentazione o comunque non accoglienti.
Se è vero che le prime donne a intraprendere la carriera medica hanno tracciato percorsi poi meglio definiti - tra gli anni Venti e gli anni Settanta del secolo scorso - da una partecipazione femminile sempre più rilevante anche in termini numerici, e se è vero che le donne oggi rappresentano tanta parte dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro sanitario (tabella 1), è vero anche che ancora persistono differenze significative fra medici e mediche nell’intendere e nel vivere la professione: dalle sue valenze più identitarie alle modalità di organizzazione del lavoro. Disoccupazione, sottoccupazione, “precariato stabile”, flessibilità oraria, progressione di carriera, condizioni di esercizio della libera professione, rapporto con il paziente: rappresentano tutti aspetti diversamente percepiti, esperiti e talvolta “risolti” non solo, ma sicuramente anche, in base alla variabile di genere.
Un po' di numeri Dal 1978, con l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, il numero di donne iscritte a medicina è cresciuto fino a raggiungere nel 2003 il 61% del totale, per poi riscendere in 10 anni al 53%. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Salute nel 2014:
La distribuzione del genere per fasce di età conferma il più che avviato processo di femminilizzazione della professione medica. Secondo i dati raccolti da FNOMCeO nel 2012:
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In questo scenario di trasformazione, si delineano due fronti e numerose questioni aperte [1].
Sul fronte della professione, un problema già noto ma ancora attuale e particolarmente pesante continua a essere quello della conciliazione lavoro-famiglia. La quotidianità di un medico-donna che è altresì donna-medico è l’esito della tessitura complessa dei suoi molteplici ruoli e di un costante bilanciamento tra attività lavorativa e carichi familiari, aspettative personali e collettive, progetti e doveri. Le frequenti necessità di negoziare da posizioni subalterne, di (ri-)organizzarsi, di difendere scelte “alternative” o di mettere in atto strategie mimetiche e “di conformità”, si confermano attività dagli alti costi materiali e immateriali.
Un secondo problema, molto sentito in medicina generale, è poi rappresentato dall’indebolimento dell’autonomia professionale: l’affermarsi di logiche manageriali in sanità, riorientando le priorità dalla dimensione della cura alla dimensione della prestazione, tende infatti a promuovere un’organizzazione del lavoro che pianifica e impartisce, e che riduce sensibilmente i margini di autodeterminazione e discrezionalità dei professionisti. Le donne medico in particolare vedrebbero aggiungersi a questa situazione di generale disconoscimento di azione autonoma gli effetti di una ancora presente segregazione occupazionale a vantaggio del genere maschile, e sarebbero perciò spinte anche in questo ambito lavorativo verso posizioni meno prestigiose, da housewives della medicina.
Sul fronte del rapporto con i pazienti, distanza, insofferenza e sfiducia risulterebbero riconosciute e affrontate con maggiore efficacia proprio dalle professioniste.
Nell’interazione medico-paziente, e in particolare nella condivisione dei percorsi di salute e di malattia e nella co-costruzione delle strategie di intervento, il medico offre e applica le competenze sulla patologia e insieme a esse la sua idea di salute e i suoi modi e modelli di essere e di fare il medico. Sull’altro fronte, il paziente si presenta con una specifica esperienza di malattia e con competenze, aspettative e richieste in misura variabile peculiari o condivise. Questo incontro tra disease come diagnosi clinica e illness come esperienza soggettiva dei sintomi e dei disagi, se supportato da una interazione aperta, orientata all’ascolto e alla negoziazione, può prendere la strada di un confronto complesso ma proficuo; se situato in una cornice di forti asimmetrie e di arroccamento, si riduce a contrasto e ad esercizio di potere ora coercitivo ora difensivo.
I dati ci dicono che le donne medico, rispetto ai colleghi uomini, dedicano in media due minuti di più ai loro pazienti durante le visite; a parità di completezza di informazioni biomediche, riescono a tenere conto dell’aspetto emozionale della malattia; coinvolgono il paziente nel processo di cura; tendono a praticare una medicina centrata sulla persona. Questa maggiore attenzione alla sfera relazionale e l’attitudine empatica favorirebbero dunque un’interazione tra curanti e curati meno rigida e meno orientata all’antagonismo. Le donne medico tenderebbero ad essere più disponibili, dando priorità alla dimensione pubblica e relazionale, e dedicando maggiori risorse a momenti di incontro riconosciuti dai pazienti, piuttosto che orientarsi verso le dimensioni tecniche e gestionali e al riconoscimento della comunità scientifica.
Sarebbe però un errore ricondurre la costruzione di tale pratica professionale soltanto e semplicemente a tratti “naturali” e individuali. Porre il paziente al centro e accordare spazi non residuali anche alle espressioni emotive non sono solo questioni di “carattere”, attitudini e inclinazioni. Il modo in cui si “fa medicina” è il portato di scelte complesse e socialmente costruite.
Resta da chiedersi quanto e come l’apporto innovativo del processo di femminilizzazione venga di fatto depotenziato dall’effetto combinato dei vincoli e delle dinamiche di disuguaglianza attive nel quotidiano esercizio della professione: in particolare dalla crescente compressione e rigida schedulazione dei tempi di lavoro, e dalle ancora presenti disparità di prestigio, di accesso ai ruoli apicali e/o di esercizio del potere decisionale. Si conferma dunque ipotesi di partenza per ulteriori indagini il domandarsi se e con quali modalità le donne medico si stiano adeguando - altrettanto se non più dei colleghi - ai ritmi e alle richieste che il sistema medico richiede loro; e quale sia, in termini di perdita delle caratteristiche, delle istanze, delle sensibilità più “diverse” e innovative, la portata di questa ulteriore trasformazione.
Note
[1] L’analisi proposta oltre che a dati e letteratura (cfr. riferimenti bibliografici), fa riferimento ad un lavoro di ricerca attualmente in corso sulle biografie delle donne che hanno intrapreso la carriera di medico con specializzazione in pediatria. Una prima restituzione è stata effettuata in occasione del VII congresso della Società Italiana delle Storiche “Genere e storia: nuove prospettive di ricerca”, tenutosi a Pisa dal 2 al 4 febbraio 2017.
Riferimenti bibliografici
Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale, Assetto organizzativo, attività e fattori produttivi del SSN, Roma: Ministero della Salute, 2013
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Biancheri R., "Studentesse e professioniste in medicina. Percorsi storici e nuove biografie", in R. Biancheri, E. Ruspini (2015, a cura di), Interpretare il genere. Nuove tecnologie, dinamiche di salute e professioni, PUP, 2015
Bronzini M., "I medici di medicina generale: differenze di genere e di generazione", in C. Cipolla et al. (a cura di), I medici di medicina generale in Italia, FrancoAngeli, 2006
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Mascagni G., Percorsi di vita e di salute. Un’analisi sociologica delle terze età, Carocci, 2015
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