Politiche

L'Agenzia europea per i diritti fondamentali fornisce un quadro dei passi avanti e delle sfide che gli stati Ue devono ancora affrontare per evitare che un' intera generazione di giovani resti senza alcuna prospettiva reale d'inclusione

Migranti, non perdiamoci
una generazione

7 min lettura
Foto: Unsplash/ AJ Gallagher

Il 2015 e il 2016 sono passati ormai alla storia come gli anni della crisi migratoria, che ha posto l'Unione europea – e soprattutto gli Stati membri ai suoi confini esterni, sia terrestri che marittimi – di fronte a un aumento rilevante degli arrivi di persone in cerca di protezione. Al di là delle statistiche e dei numeri, stiamo parlando di persone che sono entrate nel territorio dell’Unione, hanno chiesto asilo, hanno intrapreso percorsi di integrazione negli stati membri. Molte di loro hanno esperienze traumatiche alle spalle, violenze a cui sono sopravvissute nei paesi di origine e durante il viaggio e necessitano, dunque, di protezione e supporto specifici. Ognuna di loro, inoltre, è portatrice di ambizioni e aspirazioni; di un bagaglio culturale più o meno ampio acquisito prima della partenza; di una diversità che merita di essere adeguatamente valorizzata. In che modo, allora, gli Stati europei di arrivo hanno risposto a questa sfida? Quali misure per l’integrazione sono state introdotte? Cosa sta funzionando e quali sfide rimangono da affrontare?

Questi gli interrogativi a cui si propone di rispondere l’ultimo report pubblicato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA), dal titolo Integration of young refugees in the EU. Lo studio si concentra su sei paesi dell'Ue – Italia, Francia, Grecia, Svezia, Austria e Germania – e riporta i dati emersi da più di 400 interviste individuali con richiedenti asilo e titolari di uno status di protezione, nonché con istituzioni pubbliche competenti in materia di immigrazione e politiche dell’integrazione e con organizzazioni della società civile. L’obiettivo della ricerca è quello di analizzare gli strumenti legislativi e di policy esistenti per favorire l’integrazione delle persone di età compresa tra i 16 e i 24 anni arrivate nei paesi Ue durante la crisi migratoria, a partire da 15 casi studio locali: in ognuno dei sei paesi considerati, infatti, i ricercatori coinvolti si sono focalizzati su alcune località specifiche considerate come rappresentative del contesto nazionale e della sua eventuale disomogeneità.

Per quanto riguarda l’Italia, la ricerca si è concentrata sulle città di Roma e Milano e sulla regione Calabria, per rendere conto sia delle diverse fasi del percorso migratorio – essendo le località punti di primo arrivo, transito e/o destinazione finale – sia della diversità territoriale che ancora contraddistingue le varie zone del paese. Ottantasei gli esperti italiani intervistati, tra i quali 38 membri di organizzazioni non governative, 6 avvocati, 14 esponenti dei servizi pubblici locali e 4 autorità competenti per i minori stranieri non accompagnati. Trentasei, invece, i richiedenti asilo e titolari di uno status di protezione intervistati nelle tre località, di cui alcuni minori non accompagnati. 

Tante le raccomandazioni che FRA rivolge agli stati membri per migliorare le politiche di integrazione della popolazione target ed evitare di condannarla a un destino di marginalizzazione ed esclusione. Tra queste: l’importanza di ridurre la durata della procedura d’asilo e fornire in tempi brevi uno status giuridico certo, limitare la burocrazia necessaria per ottenere il ricongiungimento familiare, fornire un alloggio adeguato, migliorare l’assistenza psicologica e le misure di supporto per chi è stato vittima di violenze e traumi, garantire l’accesso al sistema di istruzione obbligatoria per i minori e favorire percorsi di formazione professionale e di istruzione come strumento primario di integrazione. Il report, inoltre, sottolinea l’importanza di introdurre misure efficaci di supporto ai minori – richiedenti asilo e titolari di status di protezione – nella delicata fase di passaggio alla maggiore età, per garantire la continuità dei percorsi di integrazione intrapresi. A completare la ricerca, la possibilità per il lettore di consultare sul sito di FRA estratti delle interviste condotte nei sei paesi e di avere accesso alla mappatura delle buone pratiche individuate a livello locale per favorire l’integrazione della popolazione target. 

La situazione italiana è rintracciabile in più punti scorrendo il report. La procedura di asilo viene descritta come eccessivamente lunga e farraginosa; in alcuni casi i richiedenti asilo incontrano difficoltà nella fase stessa di accesso alla registrazione della domanda presso le autorità di polizia, di fatto rimandando forzatamente l’avvio del processo di integrazione. Il ricongiungimento familiare viene visto dai potenziali beneficiari come un’ipotesi remota di cui eventualmente godere in una fase avanzata del percorso di integrazione: il motivo è spesso da rintracciare nella scarsità delle informazioni fornite e accessibili, nell’onerosità burocratica della procedura e nelle difficoltà riscontrate nel raccogliere i documenti necessari nel paese di origine dei familiari da ricongiungere.

Per quanto riguarda il sistema di accoglienza, le condizioni di vita in molti centri italiani continuano a essere al di sotto degli standard fissati dal diritto Ue e i frequenti trasferimenti da un centro all’altro hanno un impatto profondamente negativo sui percorsi di integrazione. Sembrano far eccezione i centri di accoglienza di secondo livello della rete Sprar (ora Siproimi) che però sono stati fortemente colpiti e ridimensionati dalle recenti riforme introdotte dalla legge 132 del 2018, voluta dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Mancano, invece, misure adeguate di accompagnamento abitativo ai titolari di protezione al momento della fine del percorso di accoglienza: mancanza questa che risulta perfettamente in linea con la crisi delle politiche abitative e dell’edilizia sociale nell’Italia degli ultimi decenni. L’accesso al mercato privato delle abitazioni in locazione, inoltre, è reso difficile dalla riluttanza dei proprietari ad affittare a persone non italiane, soprattutto se sprovviste di un regolare contratto di lavoro o di un permesso di soggiorno di lunga durata. I ritardi burocratici, le difficoltà nell’accesso ai servizi e ai percorsi di integrazione, l’incertezza rispetto allo status giuridico sembrano compromettere il benessere psicologico della popolazione target che si sente disincentivata dall’investire tempo e risorse nella propria formazione e integrazione in Italia. 

Il report, inoltre, dedica la sezione finale ad analizzare la correlazione eventualmente esistente tra l’assenza di politiche di integrazione efficaci e la maggiore esposizione della popolazione target al rischio di venire coinvolta in attività illecite come vittime o come autori di reato. A tal proposito, lo sfruttamento lavorativo, il razzismo e i crimini d’odio sono le fattispecie di reato a cui le persone intervistate – indipendentemente dal genere – riportano di essere maggiormente esposte.

La tratta e il traffico di esseri umani sembrano, invece, colpire maggiormente le donne. FRA sottolinea che, in tutti gli stati membri, le donne sono meno propense a denunciare alle forze dell’ordine le violenze subite e sono esposte a fattori di rischio specifici, quali la dipendenza dal titolo di soggiorno del coniuge o di altri membri della famiglia, la scarsa conoscenza della lingua del paese di arrivo, le violenze subite prima della partenza e durante il viaggio e il debito eventualmente contratto per finanziare la migrazione. Tutti questi fattori rendono spesso le donne più esposte alla violenza economica e alla possibilità di essere coinvolte nelle reti dello sfruttamento a fini sessuali anche nel paese di arrivo. 

Il report di FRA fornisce, dunque, un quadro completo di quanto finora fatto per favorire l’integrazione di richiedenti asilo e titolari di uno status di protezione e di quali sono le sfide che gli stati Ue devono ancora affrontare per evitare che si crei una generazione persa di giovani senza alcuna prospettiva reale di inclusione. Tuttavia, non si può evitare di considerare che la ricerca condotta si arresta alla fine del 2018: nel frattempo, il discorso pubblico si è avvelenato, alimentando la retorica dell’invasione e veicolando sempre più contenuti di razzismo e intolleranza. Dall’altro lato, la normativa in materia di immigrazione – in Italia, così come in altri paesi dell'Unione – lungi dall’investire su integrazione e inclusione, ha fatto del contrasto all’immigrazione irregolare, del rafforzamento delle frontiere e della disciplina degli ingressi, i suoi punti focali.

In Italia, questo processo – iniziato già con il Governo Gentiloni e il suo ministro dell’Interno Marco Minniti, che impose il codice di condotta per le Ong attive nel Mediterraneo, un primo decreto legge su immigrazione e sicurezza, nonché un "memorandum di intesa" con le autorità libiche per il controllo dei flussi in mare – ha subito una forte accelerazione con il primo governo Conte, che ha abolito la protezione umanitaria, prolungato i tempi della detenzione amministrativa, ristretto le maglie del sistema italiano di accoglienza. E se il dibattito pubblico si concentra sulla chiusura dei porti, è facile presupporre che le politiche di integrazione non rappresentino in alcun modo una priorità per chi governa questo paese.