Dai graffiti ai meme, passando per le performance di strada. Come l'arte femminista dal basso ha cambiato il destino delle donne nella Polonia degli ultimi anni. Un'indagine della studiosa e femminista polacca Agnieszka Graff

All’inizio di luglio 2018, gli edifici dell’Arcidiocesi di Varsavia sono stati imbrattati con scritte dal contenuto emblematico: “Assassini”, “Questo è il mio sangue e questo è il mio corpo - giù le mani! Eva mitocondriale”. Sul marciapiede è invece comparsa la seguente scritta: “Basta ingerno per le donne”.
In risposta alle pressioni della chiesa, la camera bassa del parlamento polacco aveva da poco riesaminato il progetto di legge sull'abolizione dell’aborto, promosso dai gruppi religiosi fondamentalisti, il quale ricomprendeva il divieto di praticare l’aborto perfino in caso di gravi anomalie del feto. Le scritte sono state tracciate in fretta e furia con vernice a spruzzo rossa e nera.
La loro comparsa ha rotto dei tabù, e il contenuto di una di esse era chiaramente blasfemo: si trattava di una parafrasi delle parole pronunciate da Gesù, messe in bocca a colei che viene ritenuta essere la capostipite dell’umanità, ergendola così a paladina delle donne perseguitate dalla chiesa polacca. La storia della chiesa, che in Polonia viene riconosciuta come fonte e custode della tradizione culturale, è stata oggetto di un audace accostamento con la storia dell’umanità, una storia molto più lunga e universale: dopotutto, Eva sarebbe vissuta circa 200.000 anni fa.
Gli attacchi dei gruppi femministi agli edifici religiosi
Gli attacchi dei gruppi femministi agli edifici religiosi sono stati considerati molto più di un semplice atto di vandalismo: sono stati giudicati come un vero e proprio sacrilegio. Le poche persone che hanno mostrato solidarietà li hanno definiti una risposta adeguata da parte delle donne all’ingerenza della chiesa a livello politico, nonché agli attacchi mossi da quest’ultima, che si sostanziavano nell’intenzione di vietare qualsiasi forma di aborto.
Le scritte femministe possono essere lette come un’invasione di campo a discapito della chiesa, in risposta a un’altra invasione – quella del corpo delle donne – che la chiesa stava favorendo. Inizialmente, l’accaduto mi ha scioccata e divertita (era stato superato un limite che sarebbe stato invalicabile solo uno o due anni prima); tuttavia, nel giro di poco tempo, ho iniziato a provare uno strano senso di sollievo, simile a quello che si prova nell’imminenza di un temporale, dopo una giornata afosa e soffocante. Sì, c’era qualcosa che era rimasto inevitabilmente in sospeso.
Ma cos’era questo qualcosa? Diciamo che forse si trattava di una frattura, la violazione di un contratto dettata dalla rabbia. Indubbiamente, negli ultimi anni, è emersa una nuova entità collettiva nella sfera pubblica polacca, nell’immaginario collettivo e in ambito artistico: le donne arrabbiate. Queste donne sono mosse dalla rabbia, non si vergognano, non lesinano minacce e alzano la voce. Cosa più importante, da un po’ di tempo a questa parte, questa entità non viene più percepita come un gruppo marginale o come qualcosa di strampalato. Magari suscita indignazione ma non viene più ignorato.
Una vera e propria ribellione femminista è attualmente in corso nel cuore della società polacca, laddove fino a oggi ha regnato il silenzio, in una dimensione in cui si fondono religione, identità nazionale e fisicità. Fino a oggi, pochissime donne si erano addentrate in questa dimensione; ora, invece, all’improvviso, si sta verificando un tumulto generale che non può essere soffocato. Qualcosa è cambiato per sempre. Al fine di comprendere la portata di questo cambiamento e di analizzarne accuratamente le manifestazioni in campo artistico, dobbiamo ripassare un capitolo della storia polacca.
Durante i due decenni successivi ai cambiamenti politici del 1989, le questioni relative all’uguaglianza di genere sono state completamente trascurate nella sfera pubblica e sono state liquidate come un qualcosa di “complementare” o come “le solite cose”. Le persone scherzavano dicendo che, in Polonia, i diritti delle donne rappresentavano un concetto astratto che interessava solo un piccolo gruppo di femministe, mentre le “donne normali” erano impegnate nella “vita reale”.
Se i conflitti riguardanti i diritti delle donne hanno avuto copertura mediatica, lo dobbiamo all’Unione europea, che ha fatto pressioni in tale ambito chiedendo, ad esempio, che venisse introdotta una normativa sulle discriminazioni sul luogo di lavoro. Vi era conformità di vedute per quanto riguarda l’Ue – si trattava di una faccenda seria: prima abbiamo a lungo desiderato che il nostro paese divenisse uno stato membro, poi abbiamo provato ad adattarci. Dopo tutto, ritornavamo in Europa; si trattava quindi di un momento storico fondamentale. L’Europa mostrava una strana ossessione per l’uguaglianza, così abbiamo dovuto arrenderci – o, piuttosto, fare finta di arrenderci. Il fatto è che c’era solo un attore chiave sulla scena, la chiesa cattolica, le cui visioni in materia erano in contrasto con quelle dell’Unione.
La legge antiaborto del 1993 è stata introdotta a seguito delle forti pressioni esercitate dalla chiesa; sebbene si trattasse di una delle più restrittive in Europa, è stata eufemisticamente definita come un “compromesso”. Questo compromesso non doveva essere oggetto di dibattito pubblico, e i collettivi femministi che hanno provato a metterlo in discussione sono stati stigmatizzati come un manipolo di folli. Perché? Nel periodo immediatamente precedente al referendum sull’adesione all’Ue, svoltosi nel 2003, era stato lanciato un messaggio molto chiaro: la gerarchia ecclesiastica non doveva essere contrariata in quanto, senza il suo sostegno, la Polonia non sarebbe entrata a far parte dell’Ue. Dopo l’adesione, non si doveva in ogni caso indisporre la chiesa in quanto si credeva che, senza la sua benedizione, la democrazia liberale in Polonia non sarebbe sopravvissuta.
E così la questione del genere – non solo i diritti riproduttivi delle donne, ma anche la violenza domestica, la rappresentanza politica e i diritti delle minoranze sessuali – è stata messa all’angolo per lungo tempo sulla base di un accordo tacito. Non fate arrabbiare la Chiesa perché, altrimenti, tutto va in frantumi.
Oggi sappiamo che sono stati fatti male i conti
Oggi, sappiamo che sono stati fatti male i conti. Tutto è andato in frantumi. Stiamo assistendo alla morte della giovane democrazia polacca e all’azzeramento di tutti i progressi fatti dalla Terza repubblica. Questo sta accadendo con il pieno appoggio della chiesa; intanto, i collettivi femministi hanno assunto un ruolo chiave nella difesa della democrazia. Oserei dire che questo cambiamento inaspettato ha avuto conseguenze importanti per la sensibilizzazione della popolazione femminile polacca, incluse coloro che non si definiscono “femministe”.
Nell’ambito del bizzarro “compromesso” raggiunto tra il cattolicesimo nazionalista e il liberalismo europeo, la voce della ribellione femminile era destinata a rimanere ai margini; era tuttavia sempre presente in ambito letterario, artistico e scientifico, e occasionalmente anche nella sfera pubblica. Rappresentava la voce dell’opposizione alla “normalità” universalmente accettata, una voce che emergeva dall’ombra.
A volte, il femminismo ha rappresentato un argomento cruciale: il romanzo di Izabella Filipiak intitolato Absolutna amnezja (Amnesia assoluta) del 1995 ha causato molto scalpore, le creazioni artistiche di Katarzyna Kozyra e Anna Baumgart hanno destato interesse, e l’istallazione di Dorota Nieznalska intitolata Pasja (Passione) del 2001 ha fatto scandalo ed è stata al centro di un caso giudiziario di cui si è parlato molto in Polonia.
La figura principale cui guarda chi si definisce “umanista” è la teorica Maria Janion – credo si tratti di colei che ha introdotto il femminismo nel linguaggio dell’intellighenzia polacca, l’autrice di Kobiety i duch inności (Le donne e lo spirito della dissidenza) del 1996 –, la quale ha anche patrocinato una mostra importante, intitolata lka. Medium, cień, wyobrażenie (Le polacche. Mezzo, ombra, immagine), allestita presso il Centro di arte contemporanea di Varsavia (2005). La mostra inglobava l’arte femminista contemporanea all’interno della storia della cultura polacca. Un’altra opera estremamente importante è la poesia di Bożena Keff intitolata Utwór o matce i ojczyźnie (Componimento su madre e madrepatria) del 2009, nella quale la questione del genere si intreccia con la storia della popolazione ebraica in Polonia, e la dimensione grottesca dei miti del martirio nazionale viene impietosamente messa in luce.
Di tanto in tanto, il femminismo ha mostrato sprazzi di energia nella sfera pubblica: la prima Manifas[1] ha destato molta attenzione (dal 2000 in avanti), e il Partito delle donne e il Congresso delle polacche hanno visto la luce, rispettivamente nel 2007 e nel 2009; la critica letteraria e attivista Katarzyna Bratkowska ha suscitato grande clamore quando ha dichiarato di essere incinta e di voler abortire la vigilia di Natale del 2013.
A livello di percezione collettiva, ciascuno di questi eventi politici, mediatici o artistici – ve ne sono molti altri che ho omesso in questa sede – ha rappresentato un caso a sé. Non era chiaro a nome di chi il femminismo polacco stesse parlando, e vi erano molti indizi che facevano pensare che stesse parlando solo per se stesso.
Non c’era un “popolo” femminile, non c’erano manifestazioni di piazza o organismi collegiali cui potessero far capo le affermazioni e gli eventi di cui sopra. Era però in vigore un accordo non scritto sul ruolo speciale giocato dalla chiesa in Polonia, nonché sul silenzio imposto alle donne – si trattava del deplorevole “compromesso” descritto sopra, che riguardava non solo l’aborto ma qualsiasi cosa relativa a sesso e sessualità che avesse una dimensione politica.
Questo accordo tacito implicava che “le donne” non potessero essere intese a pieno titolo come un’entità della vita collettiva. Nell’ambito della dialettica sul “ritorno della Polonia in Europa” non vi era spazio per le rivendicazioni delle donne in materia di pieno godimento dei diritti. Il femminismo restava pur sempre un fenomeno culturale di nicchia e, seppur creativo e interessante, di rilevanza marginale e con un impatto modesto sul corso degli eventi.
Granica pogardy (Border of contempt), photo © Katarzyna Nurowska
Quando è stata messa la parole fine al “compromesso”
Intorno al 2013, è stata messa la parola fine al “compromesso”. L’accordo tacito è stato rotto dalla chiesa, che si è dissociata dalla democrazia liberale e si è alleata con la destra populista antieuropeista. Già da tempo, commentatori e commentatrici di sinistra avevano analizzato la tendenza antiliberale della chiesa; tuttavia, per gli ambienti benpensanti di stampo liberale, ciò è divenuto chiaro solo di fronte all’attacco sferrato dalla chiesa contro “l’ideologia di genere”, e alla campagna d’odio scatenata dall’estrema destra.
Questa campagna prendeva di mira non solo i collettivi femministi, le comunità Lgbt e gli educatori e le educatrici sessuali, ma anche l’intero occidente liberale, il quale, nell’ambito della dialettica di annichilimento della “teoria del gender”, è stato oggetto di una vera e propria demonizzazione, oltre a essere etichettato come una “civiltà della morte”.
La Polonia ha giocato un ruolo particolare in questa dinamica: doveva essere il pilastro dei valori cristiani. La campagna di lotta all’ideologia di genere ha fomentato paure e antagonismi a livello sociale, ma anche un nazionalismo aggressivo, che è diventato un’ossessione collettiva durante l’emergenza migratoria. Gli attacchi ad attivisti e attiviste che si occupano di promuovere l’uguaglianza di genere si sono sommati alla demonizzazione della popolazione rifugiata, diffondendo il messaggio secondo cui l’uguaglianza di genere indebolirebbe la Polonia, rendendola un branco di pappamolle, e che la Polonia dovrebbe difendersi dall’invasione della “barbarie” che l’Ue intende finanziare.
Questa è, a grandi linee, la visione che la destra ha del mondo e del paese, visione che nell’autunno del 2015 ha portato alla vittoria del partito Diritto e giustizia (PiS) e gli ha permesso di sopprimere impunemente l’indipendenza della magistratura nel 2018. Mentre negli anni novanta e nella prima decade del XXI secolo le élite liberali ritenevano che, senza sottomissione alla chiesa, non sarebbe esistita la Polonia europea, oggi le stesse élite sono consce del fatto che sono stati i lunghi anni di sottomissione alla chiesa ad aver portato alla sconfitta della democrazia, e questo pregresso potrebbe infine portarci fuori dell’Ue. La chiesa ha tradito la democrazia polacca – questa affermazione, che prima veniva pronunciata solo ai margini del dibattito pubblico, è ora pienamente condivisa nei circoli che in passato avevano per lungo tempo considerato l’alleanza fra lo stato e l’altare come un qualcosa di imprescindibile.[2]
La questione del genere si è inaspettatamente venuta a trovare al cuore della lotta per la democrazia polacca, con i collettivi femministi ampiamente riconosciuti come degli attori politici. Oggi, 25 luglio 2018, mentre scrivo il presente articolo, il quotidiano Gazeta Wyborcza pubblica in prima pagina la foto di un gruppo di attiviste del network “Lo sciopero delle donne”, intente a manifestare davanti all’edificio del Senato contro la legge che pone fine all’indipendenza della magistratura. L’eroina delle proteste contro l’attacco sferrato ai danni dell’indipendenza degli organi giudiziari è Klementyna Suchanow, scrittrice e femminista che ha seguito da vicino l’attività del movimento globale di contrasto alla teoria del gender.
La violenta offensiva della destra, alleata della Chiesa, ha portato alla nascita di una nuova entità politica nella cultura polacca: quella delle donne arrabbiate. La lotta per i diritti delle donne è quindi diventata la lotta per la democrazia. Dopo due decenni di tacitazioni, mancanza di rispetto e ridicolizzazioni, abbiamo ora un “popolo” femminile, un’entità politica collettiva.
L’incarnazione più immediata è quella di un movimento sociale che è in grado di mettere in piedi una mobilitazione estremamente efficace, ben connessa, “variopinta” e variegata. Questo “popolo” non ha una guida, sebbene siano emerse molte portabandiera degne di stima. Questo movimento non ha un’ideologia coesa o una visione del mondo. È anticlericale ma non antireligioso – la maggior parte delle partecipanti sono cattoliche che si sentono offese dalla posizione politica della gerarchia ecclesiastica.
Quando dico che c’è un “popolo” femminile, penso a qualcosa di più rispetto a un organismo collettivo pronto a scendere in piazza. Siamo di fronte a una comunità dell’immaginario, una rivoluzione di immagini, testi e canzoni. Nuovi fenomeni sono apparsi a livello culturale – non solo opere individuali o tendenze in campo artistico, ma anche un certo linguaggio espressivo, nuove forme di reazione. Le “proteste nere” che si sono svolte nel 2016-2018 hanno portato alla nascita di una comunità femminile dell’immaginario, ampliando lo spazio di pensiero e parola in Polonia, incluso in campo artistico.
Nuovi soggetti, arte nuova
Qual è il nuovo soggetto femminile che parla a “le donne”? Non è più un’artista ironica, una ricercatrice o un’autrice solitaria di dissertazioni sull’uguaglianza di genere; è piuttosto una strega, una cassandra, una vendicatrice che parla a nome delle “donne comuni” che hanno perso la pazienza. Le creazioni artistiche delle donne arrabbiate prendono spunto dalle conquiste femministe in Polonia, sebbene se ne differenzino in maniera sostanziale.
Tali creazioni sono più radicali, mostrano un coinvolgimento più forte, sono più audaci ma al contempo hanno un approccio più egualitario – si rivolgono indubbiamente a un pubblico di massa. Spesso prendono in prestito il simbolismo nazionale, se ne appropriano e lo trasformano. Tuttavia, aspirano all’universalità – parlano di alleanza a livello globale (e non solo nazionale) del nazionalismo con il fondamentalismo religioso, nonché di crisi migratoria e di ecologia. Le artiste hanno tratto forza dalla lunga tradizione della rabbia delle donne, ispirandosi consapevolmente alle streghe, alle rivoluzionarie e alle vendicatrici. Alle forze della natura. All’umanità. E, sì, all’Eva mitocondriale.
La stretta relazione tra la cultura delle proteste rosa e la nuova scena artistica al femminile ha attirato la mia attenzione sulla mostra intitolata Polki, patriotki, rebeliantki (Polacche, patriote, ribelli), che ho avuto modo di visitare presso la Galleria dell’Arsenale di Poznan nell’autunno del 2017.[3] Come evidenziato dalla curatrice, Izabela Kowalczyk, le opere esposte sono intrise del conflitto politico e culturale polacco, ma non soccombono alla sua logica. Esse applicano una strategia di “appropriazioni”: con un’ironia rabbiosa, sfruttano il simbolismo nazionale a favore della causa femminile, denunciando l’esclusione delle donne da quell’organismo collettivo che viene comunemente definito “nazione”, e prendendosi gioco allo stesso tempo di quel comportamento grottesco consistente nel “mostrare i muscoli” di quella mascolinità che sta al cuore dell’immaginario collettivo.
Un esempio lampante di questa strategia è l’installazione artistica di Agata Zbylut intitolata Suknia (Abito lungo), fatta di sciarpe da stadio, simbolo dell’inasprimento della deriva nazionalista degli ultimi anni. In larga misura, la forza espressiva di quest’opera d’arte deriva dalla cura con cui è stata realizzata. Con la sua eleganza, l’abito lungo si prende gioco della cultura calcistica: la combattività delle “sciarpe” è legata a doppio filo alla cultura del consumo, alla moda e ai gadget.
Un altro esempio viene fornito dall’opera di Liliana Piskorska intitolata Autoportret z pożyczonym mężczyzną, aka: Jestem Polakiem więc mam obowiązki polskie (Autoritratto con un uomo preso in affitto, ovvero: sono un polacco e quindi ho obblighi polacchi). L’artista, che si dichiara apertamente lesbica ed è conosciuta per il suo progetto artistico omosessuale, cattura un’immagine di se stessa distesa in un letto fatto con lenzuola “patriottiche” disponibili in commercio, insieme a un uomo con la testa rasata e un tatuaggio dal contenuto patriottico in bella mostra. L’accostamento tra i simboli grandiosi e l’indolenza della posa tra le lenzuola, nonché l’idea che un nazionalista possa essere “preso in affitto” sortiscono un effetto comico. Tuttavia, la foto contiene anche un elemento che fa riflettere. Lo sguardo ironico dell’artista sembra chiedere: basta questo per sopravvivere nella Polonia di oggi? Chi è quest’uomo? Dove può essere preso in affitto? Che compenso chiede per offrire la sua protezione a una lesbica?
La fotografia è parte di una serie intitolata Sposoby kamuflażu we współczesnej Polsce [Metodo di camuffamento nella Polonia contemporanea] del 2016, il cui obiettivo, stando alle parole dell’artista, è quello di mettere in discussione il monopolio dell’estrema destra sui simboli patriottici. È interessante notare come quest’opera d’arte sia stata essa stessa oggetto di “appropriazione” culturale quando è diventata un popolare meme disponibile online. Stando ad alcuni commenti, l’opera non rappresenterebbe tanto una critica della cultura nazionalistica, quanto piuttosto una manifestazione della stessa – un messaggio promozionale a favore delle lenzuola utilizzate nella foto. È difficile dire se la dinamica intervenuta dimostri il successo dell’opera d’arte o ne rappresenti piuttosto la sconfitta.
Per certi versi, il “camuffamento” ha funzionato quasi troppo bene, e il destino di quest’opera d’arte costituisce una triste conferma della constatazione secondo cui, nella Polonia odierna, l’unica lingua di comune comprensione sia quella del nazionalismo. Tuttavia, nella dialettica femminista, opere d’arte parallele come quelle di Agata Zbylut e Liliana Piskorska rappresentano dei segnali di resistenza all’egemonia maschile a livello nazionale. Sono altrettanto audaci – si pensi, ad esempio, agli striscioni apparsi durante le proteste delle donne, che recitavano “Uteri maledetti”, “La polacca militante” e “Le polacche non sono ancora perdute”.
Chór Czarownic The Witches’ Choir, photo © BTW_PHOTOGRAPHERS_MAZIARZ_RAJTER
Come vengono rappresentate “le donne” a teatro
Come vengono rappresentate “le donne” a teatro? Recentemente, ho partecipato a molti spettacoli di rilievo relativi alla battaglia che oggigiorno viene combattuta a favore dei diritti delle donne: uno di questi spettacoli si intitola Klątwa (La maledizione) ed è stato scritto da Oliver Frljić; un altro è Żony Stanu, dziwki rewolucji, a może i uczone białogłowy (Mogli dello stato, puttane della rivoluzione o forse donne colte) di Jolanta Janiczak. Il livello di politicizzazione di questi spettacoli non ha precedenti nella storia del teatro in Polonia.
In entrambi i casi, il pubblico è chiamato a combattere il modello patriarcale e a esternare le proprie esperienze e vedute. A un certo punto dello spettacolo Żony Stanu, dziwki rewolucji, a może i uczone białogłowy, lo spazio teatrale si trasforma in una manifestazione di piazza, e il pubblico, striscioni alla mano, esce in strada davanti al teatro. In una delle scene di Klątwa, un’attrice con la pancia scoperta con su scritto 1.000 zloty intreccia un dialogo con il pubblico: chiede alle donne presenti in sala se hanno abortito; poi afferma che molte donne non hanno avuto il coraggio di ammetterlo e le accusa di ipocrisia. Alla fine, mostra un’ecografia e afferma di avere intenzione di abortire nei Paesi Bassi.
Questo tipo di partecipazione del pubblico è efficace ma rimane a un livello puramente teatrale. Soltanto lo spettacolo musicale del gruppo Chór Czarownic The Witches’ Choir mi ha fatto uscire dal ruolo di spettatrice e mi ha fatto sentire parte di una comunità politica e allo stesso tempo creativa, della cui esistenza non ero poi così sicura. La forza emotiva dello spettacolo musicale di questo gruppo risiede nell’accostamento alquanto audace di musica, teatro e parole ma anche, a mio avviso, nel coinvolgimento, a livello di cast, di persone entusiaste senza alcuna esperienza professionale in ambito artistico, persone per le quali la partecipazione a questo progetto rappresenta un’avventura più unica che rara.
La maggior parte dei membri del gruppo non ha mai studiato canto ma lavora in altri ambiti. Il modo in cui la condizione della donna nella Polonia contemporanea viene accostata a una pagina nera della storia delle donne rappresenta l’asse portante di tutto lo spettacolo, nonché la fonte principale del pathos da esso veicolato.
Il gruppo è nato nel 2016 su iniziativa dell’attivista e artista Ewa Łowżył, nell’ambito di una campagna finalizzata a riabilitare la memoria delle donne uccise in Polonia durante la caccia alle streghe (e in particolar modo per commemorare il rogo della prima “strega” polacca arsa viva nel 1511 a Chwaliszewo, nei pressi di Poznan). I testi dei brani sono stati scritti da Malina Prześluga-Delimata, mentre Zbyszek Łowżył, Patryk Lichota e Malwina Paszek hanno composto le musiche.
Come si legge nella descrizione dello spettacolo: “A nostro avviso, questo progetto non rappresenta un’occasione per fare il mea culpa per la cecità mostrata e le atrocità perpetrate 500 anni fa. È piuttosto un tentativo di mettere a confronto la storia e le superstizioni popolari con il presente, nel quale si continuano a commettere atrocità, sebbene queste possano manifestarsi in un modo meno visibile. È anche un’occasione per fermarci e guardarci a vicenda – la nostra cultura, la nostra diversità, le nostre eccentricità e le nostre ossessioni quotidiane.”
Commenti pieni d’odio
I commenti pieni d’odio che compaiono sotto i videoclip degli spettacoli del gruppo includono accuse di paganesimo, demonismo e settarismo. Un commento descrive accuratamente lo spettacolo del gruppo come un oratorio bizzarro e dark”.[4]
Di fatto, le esibizioni del gruppo rappresentano dei tentativi di rendere la donna la protagonista principale in un paese cattolico in cui la cultura la esclude costantemente. Una dozzina di donne stanno in piedi davanti a noi; le loro figure emergono dall’oscurità. Hanno età differenti e corpi molto di versi tra loro – alcuni rispondono ai canoni tradizionali della bellezza, altri se ne allontanano chiaramente. La tipologia di abiti – o piuttosto l’assenza di abiti – gioca un ruolo fondamentale.
Le performer sono “nude”, nel senso che indossano solamente una sottana di cotone color carne. Rimangono in una formazione compatta, forti emozioni dipinte in volto: rabbia, determinazione, disperazione. Dopo un’introduzione strumentale penetrante, ascoltiamo una dozzina di brani che sembrano essere cantati in trance. Ciascun brano è un bellissimo componimento poetico femminista; non è però solo il testo a colpire, è anche la straordinaria intensità dello spettacolo, che è permeato di musica psichedelica.
L’esibizione del gruppo è una maledizione scenografica e rabbiosa rivolta al patriarcato – un rifiuto di prendere parte al solito gioco della femminilità, la messa in discussione di un obbligo. Le streghe del passato rivivono nelle donne di oggi, sono fonte di ispirazione e parlano – o meglio urlano – a una voce. È una voce che è incompatibile con le richieste infinite che vengono fatte alle donne; è incompatibile anche con le accuse, gli obblighi di matrice patriarcale, la mancanza di rispetto e le sofferenze quotidiane:
Sto già bruciando, eppure / Sto già bruciando, eppure /
La cena da preparare / I bambini e le bambine da crescere /
Le unghie da mangiare / Le braccia immerse fino ai gomiti nel bucato /
Trasforma te stessa in una divinità / Patate e cavolo /
Yogurt light / Una pillola per il mal di testa /
Il burro è finito / Sii carina, sii carina… sii carina, sii carina.[5]
Non tutte le canzoni delle streghe sono delle lamentele sul destino delle donne. C’è anche tutto un immaginario dark relativamente a ribellione, fuga e, a volte, vendetta. Il brano iniziale, Chwaliszewo, è intriso di imprecazioni e frasi blasfeme cantate dall’oltretomba. Wataha kobiet (Il branco di donne) è una visione bizzarra e onirica alla quale partecipiamo dall’interno, adottando il punto di vista di un gruppo di donne ferite e vilipese al momento del risveglio. È da tanto che scappano, e stanno per iniziare a inseguire il loro aguzzino: “Sogniamo che quando scappiamo / … Il branco di donne che sanno come difendersi / sta ancora scappando ma un giorno gli daranno la caccia.”[6]
Ewa Łowżył ha commentato la dimensione terapeutica delle attività del gruppo: “La capacità di cantare e ascoltare canzoni semplici e inconfondibili diventa spesso un atto di autoterapia collettiva – sia per il gruppo sia per il pubblico. Come sappiamo, quando si dà un nome alle cose e se ne parla apertamente, esse perdono la loro carica negativa: improvvisamente, emerge che abbiamo paure simili e che abbiamo fatto esperienze analoghe”.[7]
Sebbene non intenda screditare la tesi del potere terapeutico del canto, ritengo che la dimensione politica sia superiore all’elemento terapeutico. Durante gli spettacoli del gruppo, le persone del pubblico si alzano spontaneamente e si mettono a cantare. Tutto ciò viene accompagnato da emozioni molto intense: senso di comunità, terrore e, al contempo, speranza. Le donne si abbracciano, si tengono per mano, gridano.
Qual è il nesso con il nuovo movimento delle donne?
Il gruppo è stato fondato qualche mese prima di quello dello sciopero delle donne, e uno dei suoi brani è diventato l’inno della protesta. Il gruppo si è esibito anche durante il Congresso delle donne, e in quell’occasione ha ricevuto una vera e propria ovazione.[8] Tuttavia, non si tratta di un’attività di servizio pubblico.
Il gruppo rappresenta un progetto artistico autonomo che, a mio avviso, si evolverà in modo indipendente rispetto alle “proteste nere”. Nel frattempo, opera in armonia, se non in simbiosi, con le proteste, esprimendo e al contempo rafforzando la ribellione delle donne. Sta contribuendo alla co-creazione di una nuova coscienza collettiva – o forse di un nuovo immaginario o di una nuova sfera emozionale. Le streghe di Poznan concludono ogni spettacolo con un brano di protesta ritmico e straziante che è stato eseguito anche in occasione delle “proteste nere”:
Il tuo potere / La tua fede / La mia colpa / La mia punizione / Il mio mondo è nelle tue mani / Sono stata sotto il tuo controllo per tantissimi anni! / Guardami dritto negli occhi / Sono tua madre, tua sorella / Sono tua figlia, tua moglie / Cammino a testa alta / Tantissime di noi camminano così, nessuna di noi ha paura / Cammino a testa alta, grido, cammino a testa alta, grido…
Un tipo leggermente diverso di simbiosi con la cultura delle “proteste nere” entra in gioco nel caso del collettivo artistico Czarne Szmaty (Stracci neri, da qui in poi CzSz): stando a quanto dichiara, il collettivo “è attivo nell’ambito di quella che viene comunemente definita ‘arte performativa’ – la street art performativa e l’happening.”[9] Per quanto riguarda questa seconda forma d’arte, mi focalizzo sull’iniziativa intitolata Pozdrowienia z Lesbos (Saluti da Lesbo) del 9 giugno 2018, il progetto più eloquente nella storia del collettivo. Non sorprende che esso abbia riscosso commenti entusiastici, trattandosi di un progetto artistico provocatorio, audace e divertente allo stesso tempo.
Quando il Corteo per l’uguaglianza è sfilato per le vie di Varsavia, tre giovani donne hanno preso possesso dell’aiuola al centro della rotatoria Charles de Gaulle, uno dei nodi cruciali della capitale polacca. Dal 2002, quest’aiuola ospita l’installazione intitolata Pozdrowienia z Alej Jerozolimskich (Saluti da Aleje Jerozolimskie), la famosa palma creata dall’artista femminista Joanna Rajkowska. Con il permesso dell’autrice, CzSz ha “modificato” quest’opera d’arte con la collocazione, sotto la palma, di un’insegna verde (come quelle utilizzate in tutta la Polonia per delimitare l’inizio di un centro abitato) con su scritto “Lesbo”; le performer hanno posizionato delle sedie a sdraio e hanno trascorso molte ore su questa “spiaggia” particolare, indossando costumi da bagno e leggendo componimenti poetici lesbici.
Le reazioni suscitate sono state le più disparate: alcune persone che si sono trovate a passare nei pressi le hanno salutate in modo amichevole; altre hanno pensato fossero pazze. Le immagini di questa performance sono state diffuse online e inviate ai media, suscitando divertimento, indignazione e un ampio dibattito su vari argomenti, tra i quali il problema migratorio, non considerato nella performance. Una delle artiste, Karolina Maciejaszek, ha commentato così la performance: “Chiunque di noi ha un’isola chiamata Lesbo. Per me, questa performance ha una natura surreale. Il cartello è uguale a quelli utilizzati nei villaggi polacchi, e lo abbiamo messo al centro di una rotatoria a Varsavia.
Lesbo è stata considerata sotto due prospettive. Il primo accostamento è di carattere culturale: si tratta dell’isola della poetessa Saffo, un luogo che è stato sempre associato all’omosessualità femminile ma anche alla sorellanza e alla cultura femminile. Il secondo accostamento si riferisce al presente. Oggigiorno, Lesbo evoca il problema migratorio. Al tal riguardo, abbiamo avuto dei dubbi. Non paragonerei la condizione delle lesbiche in Polonia a quella di rifugiati e rifugiate a Lesbo. Si tratterebbe di un’appropriazione indebita.”[10]
Martwa dziecka nie urodzę [Non partorirò da morta], murale di Marta Frej, photo © Agata Kubis
Visibilità nella sfera pubblica
CzSz ha ottenuto visibilità nella sfera pubblica ben prima di balzare agli onori della cronaca per la performance Lesbo. Il gruppo è stato fondato il 3 ottobre 2016 a Varsavia; ne fanno parte Marta Jalowska, Karolina Maciejaszek, Monika Sadkowska e Magdalena Staroszczyk. La loro prima iniziativa è stata al contempo spericolata e poetica, e ha avuto luogo durante il primo sciopero delle donne: è consistita nel blocco del traffico in vari punti di Varsavia tramite l’uso di uno striscione nero lungo diversi metri con su scritto “Il limite del disprezzo” a caratteri cubitali bianchi.
Quando è stato chiesto loro di spiegare una tale performance, hanno risposto: “Sentivamo il bisogno di dire basta. Basta trattare le donne come fossero sporcizia, il limite lo stabiliamo qui.”[11]
Questa iniziativa ha attirato la mia attenzione per la sua audacia e, al contempo, poeticità; CzSz ha fatto uso di un tropo cui si ricorre raramente nell’arte: una metafora che diventa senso letterale, il che può avere un effetto ridicolo, e, in questo caso specifico, ha rappresentato uno strumento estremamente efficace per veicolare un significato politico. Il gesto, compiuto in silenzio, di tenere lo “straccio” ha rappresentato un’espressione di resistenza ma anche di impotenza e disperazione di fronte alla violenza.
Il gruppo non si concentra solo sul divieto di aborto – dopo tutto, prende nome da uno dei termini più vili, misogini e offensivi utilizzati in Polonia per descrivere le donne. Appunto, gli stracci. C’è un elemento di assurdità e ironia amara in questa letteralità. Dove si situa il limite del disprezzo verso le donne? Qui, a questo incrocio, in questa via. Chi stabilisce questo limite? Noi, le donne con lo straccio nero in mano, il gruppo il cui nome significa appunto “stracci neri”.
Naturalmente, non è stato possibile “presidiare” questo “confine” a lungo – i clacson hanno iniziato a suonare all’impazzata, la polizia è intervenuta e i punti di blocco del traffico sono stati rimossi. Il “limite del disprezzo” ha però iniziato a girovagare per il centro città, e coloro che stavano prendendo parte allo sciopero hanno spontaneamente fatto fronte comune con CzSz, entrando in una dinamica di co-creazione di questa iniziativa alquanto rischiosa.
Il repertorio di CzSz include anche il messaggio altrettanto potente (JESZCZE) MAMY PRAWO, Abbiamo (ancora) il diritto/la legge, che è apparso durante le proteste contro le violazioni della Costituzione perpetrate dal governo Kaczyński. Un altro slogan è (BEZ)KRESNIENAWIŚCI, Odio (senza) fine, apparso durante le manifestazioni del “venerdì nero” svoltesi il 23 marzo 2018.
A un certo punto, due membri del collettivo hanno coperto la parola BEZ (senza) con la vernice nera, trasformando quindi il significato del messaggio in “odio senza fine”. CzSz ha commemorato il primo anniversario dello sciopero decorando molte statue di sirene presenti a Varsavia con fusciacche con su scritto NIE JESTEŚ SAMA (Non sei sola). L’elemento di richiamo di questa iniziativa sta nell’ambiguità del messaggio.
Nell’ambito della battaglia attualmente in corso sul diritto all’aborto in Polonia, i caratteristici striscioni neri possono essere letti come parole di incoraggiamento rivolte da audaci attivisti e attiviste alle donne oppresse. È una manifestazione di resistenza femminile – pathos, lotta e senso di comunità tra donne indomite. Tuttavia, dopo una breve riflessione, emerge chiaramente il lato divertente di questa iniziativa: ecco le sirene di Varsavia che – ciascuna immobile sul proprio piedistallo – si salutano da diverse parti della città.
Messaggi per la città
I messaggi in giro per la città potevano essere visti semplicemente come degli enormi striscioni creati con cura. Ma si tratta di qualcosa di più, così come anche il collettivo Chór Czarownic The Witches’ Choir è qualcosa di più di un gruppo musicale che accompagna le “proteste nere”. È una forma d’arte performativa, al contempo radicale e surreale, che prende ispirazione dal lavoro del gruppo Public Movement e che si rifà espressamente all’impronta situazionista e alle tradizioni di due gruppi artistici dell’epoca della Repubblica popolare di Polonia, Academy of Movement e Orange Alternative.
Infine, alcune parole sulla manifestazione più popolare (per non dire “pop”) della creatività femminile negli ultimi anni: i meme di Marta Frej.[12] Questo fenomeno si colloca al confine tra arte, arte applicata, politica e spirito commerciale.
L’ambiente di Marta Frej è internet, e i suoi meme sono immagini processate tramite computer (lavora con Photoshop utilizzando una penna). L’elemento chiave in queste immagini è il testo aggiunto dall’artista (a volte un dialogo, a volte un commento), il quale dà ai meme un senso di eversione. Ciò dà vita a commenti ironici, a volte intrisi di lirismo, a volte di malizia, su vari fenomeni ed eventi contemporanei, commenti con cui molte donne si trovano d’accordo e in cui si rispecchiano – la pagina Facebook di Marta Frej ha 160.000 fan, e i suoi meme ottengono spesso centinaia e centinaia di condivisioni.
L’utenza apprezza il messaggio politico del suo lavoro, specialmente la critica e ridicolizzazione del potere della chiesa in Polonia. Tra i meme più popolari c’è quello che mostra un gruppo di vescovi con lo slogan “Sappiamo tutto ciò che c’è da sapere sulle donne”. In un altro, si vedono due ragazze che camminano lungo il corridoio di una scuola – una delle due dice: “Mi fa tanto male la pancia!”; l’altra risponde: “Ti porto in chiesa, di solito c’è un ambulatorio!”
Ci sono anche meme che riguardano i mali del capitalismo polacco (ad esempio, un gruppo di persone sedute in cerchio, con una donna che dice: “Sono Magda e ho acceso un mutuo in franchi svizzeri.”). Ci sono molti meme di natura religiosa; Marta Frej utilizza la propria immagine, parlando apertamente della sua vita familiare, delle sue fantasie, dei suoi sogni, dei suoi errori e dei suoi pensieri più inconfessabili.
A nome del “popolo” femminile, commenta i canoni della femminilità e le varie manifestazioni del predominio patriarcale, inclusa l’ipocrisia e il moralismo che prevalgono nella sfera della sessualità. Le immagini cui dà vita non sono “opere d’arte” nel senso di creazioni indirizzate a gruppi elitari, ma hanno una diffusione massiccia, soprattutto tra le donne. Il linguaggio di queste dichiarazioni – antagonistico, verace e ribelle allo stesso tempo – ha una componente scherzosa. I meme di Marta Frej non sono altrettanto collerici o dark rispetto ai progetti di CzSz o agli spettacoli di Chór Czarownic The Witches’ Choir descritti sopra; tuttavia, nonostante la loro leggerezza, possono essere estremamente radicali dal punto di vista del loro contenuto; caratteristica, questa, che li rende popolari.
È altresì importante che le sembianze dei meme rispondano ai canoni della bellezza femminile e che possano essere utilizzati su vari gadget: tazze, calendari, t-shirt, borse, custodie per cellulari, ecc.
Inoltre, Marta Frej ha realizzato un murale che commemora lo sciopero delle donne del 3 ottobre 2016, noto come “lunedì nero”. È stato dipinto sul muro di un edificio in Ulica Targowa a Varsavia, e ritrae una folla di donne con ombrelli in mano sotto una pioggia di §. Sul murale è riportato uno degli slogan della protesta: “Non partorirò da morta”. L’artista ha fornito la seguente spiegazione al riguardo: “Il murale non ha solo come obiettivo quello di celebrare il giorno in cui le polacche hanno fatto fronte comune per combattere per i propri diritti e per protestare contro la politica discriminatoria e paralizzante attuata dallo stato; l’opera è anche volta a ricordarci che la lotta è appena cominciata… Le polacche hanno un potere immenso, ma hanno anche tantissimo lavoro da fare.”[13]
Le opere descritte qui non sono opere d’arte create per sperimentare o richiamare il femminismo. Sono dichiarazioni femministe radicali: chi le crea sceglie una forma di espressione artistica proprio perché è un(’)artista. L’impegno femminista è semplicemente una parte delle loro vite. Chi ha creato queste opere d’arte partecipa attivamente alle proteste in difesa della democrazia; Marta Frej è fondamentalmente l’icona del femminismo moderno – una partecipante fissa alle manifestazioni e al Congresso delle donne, nonché la promotrice di numerosi progetti, incontri e dibattiti culturali a Czestochowa, sua città natale.
La caratteristica fondamentale di questo lavoro creativo, e il tratto che allo stesso tempo la distingue dall’arte femminista dei due decenni precedenti è la sua accessibilità e l’impronta egualitaria. Questa non è arte elitaria che richiede un consistente capitale culturale per essere decifrata, come avviene per l’arte dotta degli ultimi 20 anni, inclusa l’arte femminista, che era ironica, allusiva e “autotematica”, caratteristiche che ne hanno decretato l’isolamento.
Le opere e i progetti di cui ho parlato in questo scritto non sono rozzi o primitivi; al contrario, possono essere estremamente sofisticati dal punto di vista formale, e sono stati creati da artisti e artiste che hanno familiarità con la storia dell’arte. Tuttavia, sebbene CzSz si richiami a fenomeni dell’arte moderna come ad esempio la performance o il situazionismo, non c’è necessità di conoscerli per fruirne a pieno o per partecipare alle loro esibizioni.
L’arte femminista moderna rifiuta l’ermetismo e l’autoironia, proprio come il femminismo di strada moderno – il femminismo delle “proteste nere” e lo sciopero delle donne – rifiuta l’elitismo del femminismo accademico. Forse la chiave di volta di questa nuova poetica è il rifiuto dell’ironia a favore del pathos e della sincerità – un fenomeno altrimenti diffuso nell’arte politica contemporanea, nel quale il sentimento gioca un ruolo fondamentale.
Il messaggio è a tratti ambiguo e multidimensionale, ma non c’è un distaccamento dalla realtà. Si tratta di arte impegnata che incoraggia chi guarda non solo a fruirne attivamente ma anche a esprimersi in modo radicale. L’obiettivo è creare un senso di comunità, catturare chi guarda e trasfondere un’emozione condivisa – o, qualora chi osserva si trovi dall’altro lato della barricata, dare vita a un confronto.
Il lato dark
L’aspetto dark ricorre regolarmente nella nuova arte al femminile. Non mi riferisco solo al colore nero – di cui fanno largo uso CzSz e Chór Czarownic The Witches’ Choir (nel caso di quest’ultimo gruppo, le figure di donna emergono dall’oscurità) – ma anche ai numerosi riferimenti ai motivi dark: le streghe, la follia, la morte. Tutto ciò si collega in parte al fatto che stiamo vivendo tempi bui; queste opere d’arte rappresentano una risposta alla situazione attuale, l’espressione di emozioni oscure.
Al contempo, però, si ripropone un filone di potere femminile oscuro. Rifiutando l’estetica femminile sdolcinata dell’era post-femminista nella quale la forza delle donne poggia sul dinamismo, sull’ottimismo e sullo spirito imprenditoriale, molte di queste opere si ispirano invece alla corrente del femminismo secondo la quale l’oscurità è la fonte del potere femminile.
Questa corrente include certamente il film di Agnieszka Holland intitolato Pokot (2017), basato sul romanzo di Olga Tokarczuk intitolato Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, nel quale un’anziana eccentrica – mezza pazza e mezza strega – si prefigge come missione la difesa degli animali da un manipolo di cacciatori. La protagonista si circonda di un gruppo di persone sensitive, emarginate, proprio come lei, dall’ambiente violento della provincia polacca, e insieme dichiarano guerra a questo ambiente. In una delle scene chiave, una chiesa viene incendiata – a quanto si dice, dagli uccelli ma in realtà dalla protagonista.
Il film è stato accusato di promuovere l'“ecoterrorismo” e il “paganesimo” – e, se considerato alla lettera, questo probabilmente è il messaggio. L’opera di Agnieszka Holland, tuttavia, dovrebbe essere interpretata come un’espressione altamente metaforica di un’emozione collettiva specifica. Al pari di quanto avviene con la canzone Wataha kobiet, Pokot è soprattutto una fantasia di vendetta. Se il cristianesimo ha oggi le sembianze di un esercito di vecchi che, secondo il meme di Marta Frej, “sanno tutto sulle donne”, la ribellione delle donne sta assumendo caratteristiche selvagge, richiamandosi espressamente ai rituali pagani. Ciò comporta un grado di sofferenza, rabbia, intensità e determinazione mai sperimentato prima nella cultura polacca.
Citando, all’inizio dell’articolo, l’iscrizione blasfema comparsa sul muro dell’Arcidiocesi di Varsavia, mi sono presa intenzionalmente un rischio: mi sono esposta alle critiche di un grande numero di lettori e lettrici. Questo gesto di “vandalismo” femminile ti ha fatto indignare? Ok! Ti ha stimolato? Difficile crederlo, ma è così. Nel mio caso, l’ammirazione è stata preceduta dallo shock.
Le dichiarazioni radicali delle donne che ho descritto in questo contributo non avevano come obiettivo quello di compiacere. Non è il loro scopo. Invece, esigono di essere prese in considerazione con serietà, così come le entità collettive che stanno dietro quelle affermazioni. Chi ha creato queste opere – forse con l’unica eccezione di Marta Frej, i cui lavori hanno molto fascino e fanno leva su di esso – non strizzano l’occhio al pubblico e non cercano di ingraziarselo.
Queste affermazioni sono intrise di violenza, pathos e slancio. Proprio come gli slogan tracciati sui muri dell’Arcidiocesi sarebbero stati inconcepibili nel passato, l’arte odierna incorpora un’espressività al femminile che sarebbe stata impensabile qualche anno fa. Quest’arte è sintomo di un divario politico e culturale, uno dei fronti della guerra culturale nella quale la Polonia si è imbarcata.
Questa guerra ha anche una dimensione spirituale: streghe, pazze e ribelli emergono dall’oscurità a difesa del bene – democrazia, libertà e pluralismo. Dall’altro lato, vedono il male – nazionalismo, misoginia, tradizioni cristallizzate e atrocità. Non so quali fattezze avrebbe l’arte delle donne se il governo autoritario di destra fosse soltanto una breve parentesi della nostra storia. Una cosa è certa: nella coscienza collettiva rimarrà traccia della fase di oscurità e disprezzo, quando una comunità di donne arrabbiate si è ribellata.
Tradotto dal polacco all’inglese da Kate Webster per Switch on paper, 21 giugno 2019, il testo è tratto dal volume Hourras et désarrois. Scènes d’une guerre culturelle en Pologne (Urrà e tumulti. Scene di una guerra culturale in Polonia), a cura di Agnieszka Żuk, e pubblicato il a maggio 2019 dalla casa editrice Éditions Noir sur Blanc, Losanna.
Note
[1] Nota della traduttrice dal francese all’inglese: manifestazioni femministe che si svolgono con cadenza annuale in tutta la Polonia in occasione della Giornata internazionale della donna.
[2] Un esempio di tale tipo di analisi viene fornito in Paweł Wroński, “Dokąd Zmierza Kościół, który zdradził III RP” [“A che scopo la Chiesa ha tradito la Terza repubblica di Polonia?”], Gazeta świąteczna, 2 giugno 2018. Wroński scrive: “La gran parte della gerarchia ecclesiastica polacca, quella stessa che nel 1989 ha contribuito attivamente alla formazione delle attuali forze politiche e che le ha sostenute nelle tornate elettorali più importanti ai tempi di Giovanni Paolo II, ha appoggiato i tentativi dell’attuale classe politica di distruggere lo Stato. Perché? Forse perché aveva già ottenuto tutto quello che poteva sperare di ottenere dalla Terza repubblica di Polonia.”
[3] Per maggiori informazioni (in lingua polacca). Un breve video di presentazione della mostra (in lingua polacca).
[4] Juliusz Tyszka, Czarownice dają czadu (Le streghe spaccano) (in lingua polacca).
[5] Chór Czarownic The Witches’ Choir (album), Już płonę (Sto già bruciando).
[6] Wataha kobiet.
[7] Rzeczywistość nas dogania (La realtà ci sta raggiungendo), intervista con Ewą Łowżył (in lingua polacca).
[8] Chór Czarownic The Witches’ Choir al IX Congresso delle donne (in lingua polacca).
[9] Maggiori informazioni (in lingua polacca) su tutti i progetti realizzati dal gruppo sono disponibili su Facebook.
[10] Czarne Szmaty. Razem znaczymy więcej niż każda osobno (Stracci neri. Insieme contiamo di più), conversazione tra CzSz e il gruppo creativo delle donne “AAAKulturalnik” (in lingua polacca).
[11] Karolina Domagalska, Nie jesteś sama (Non sei sola), “Wysokie Obcasy”, 28 ottobre 2017 (in lingua polacca).
[12] Qualche anno fa, prima che fosse fatto il “passo in avanti”, mi sono appassionata alla sua arte e le ho proposto di scrivere un libro a quattro mani; il risultato della nostra collaborazione è Memy i Graffy (Memi e scritte), Krytyka Polityczna, 2015.