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In Italia le donne lavorano più spesso in part time, ma sono anche quelle che incontrano una maggiore rigidità di spazi e tempi da parte delle organizzazioni. Colpa dei "soliti noti", uomini che ricoprono posizioni più alte con contratti migliori

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Foto: Unsplash/Jon Tyson

Il recente dibattito relativo alla fattibilità di introduzione della settimana lavorativa “corta”,  o la considerazione di questa opzione come alternativa alla tradizionale contrapposizione tra le classiche 40 ore settimanali e gli impieghi a tempo parziale, mette in luce come anche in Italia, con il classico ritardo che ci contraddistingue, la questione del work-life balance è diventata centrale nel dibattito pubblico.

In particolare, l’elemento innovativo, e sino a tempi recenti utopico, di questo dibattito è l’assenza di una negoziazione tra reddito lavorativo e vita privata, vale a dire la non attribuzione di un costo economico alla necessità di dover conciliare la vita professionale con quella privata. Al di là della fattiva applicazione di questa innovativa proposta, che porta con sé un corredo di pregi ma anche potenziai limiti (specialmente in termini di penalizzazione di specifici profili lavorativi con correlata crescita della diseguaglianza), è utile ragionare sulla flessibilità lavorativa e sul work-life balance in ottica di genere contestualizzando l’Italia nello scenario internazionale.

Rispetto a quest’ultimo punto appare utile la recente pubblicazione dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) che fornisce importanti evidenze in relazione a orari lavorativi e work-life balance in un'ottica globale. Questo lavoro, nonostante non permetta una chiara contestualizzazione della situazione italiana in prospettiva comparata dato l’ampio focus di paesi analizzati, fornisce però un’esaustiva e dettagliata ricostruzione del fenomeno nelle differenti aree del mondo.

Il rapporto Ilo mostra chiaramente che nonostante la media delle ore settimanalmente lavorate a livello globale rientri nel classico modello full-time vi è una forte polarizzazione: poco più di un terzo delle persone che lavorano a livello mondiale lo fanno per oltre 48 ore settimanali, mentre circa il 20% delle persone che lavorano è occupato per meno di 35 o addirittura meno di 20 ore settimanali (7,6%). Non sorprende inoltre notare che con pochissime eccezioni (paesi dell’est Europa dell’Asia orientale), nonostante l’impiego in orari lavorativi ridotti (meno di 35 ore settimanali) presenti una forte differenza di genere, con le donne che in media hanno un’incidenza doppia rispetto agli uomini, è tra i lavoratori uomini che il fenomeno della sottooccupazione è maggiormente evidente: tra coloro che sono occupati meno di 20 ore settimanali circa un terzo degli uomini vorrebbe lavorare più ore, mentre questo riguarda solo il 24,2% delle donne.

In Italia, prendendo a riferimento la totalità delle persone che lavorano, e non solo a tempo ridotto, questo fenomeno sembra essere più articolato. Il recente rapporto PLUS dell'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp), infatti, evidenzia un penalizzazione di genere nella diffusione del fenomeno della sottoccupazione intesa come desiderio di lavorare più ore rispetto a quelle effettivamente lavorate (11,8% delle donne rispetto al 7,6% degli uomini), evidenziando inoltre che per lavoratrici e lavoratori alla sottoccupazione si associano anche minori livelli di soddisfazione rispetto alla condizione lavorativa.

Questi dati indicano chiaramente che al di là del livello economico di sviluppo del paese in cui le persone che lavorano sono inserite, e dei relativi modelli culturali di riferimento, la questione della conciliazione tra vita privata, cura e lavoro insiste principalmente sulle donne. Il risultato è evidente non solo dalla maggior incidenza di impiego a tempo ridotto che caratterizza le lavoratrici, ma soprattutto dalla minor percezione, condizionata da stereotipi culturali, di quest’ultime di ritenersi sottooccupate proprio in virtù della complementarità dei carichi di cura e lavoro domestico a cui le donne sono soggette in tutto il mondo.

Questo aspetto è chiaramente confermato dall’analisi relativa al mismatch tra orario di lavoro effettivo e orario di lavoro desiderato presentata nel rapporto attraverso un indicatore oggettivo e un indicatore soggettivo. Mentre le lavoratrici, in termini soggettivi, presentano una minor incidenza di sottooccupazione rispetto ai lavoratori e non si registrano marcate differenze di genere rispetto alla sovraoccupazione, in termini oggettivi le donne presentano una maggior probabilità di essere sia in sottooccupazione che in sovraoccupazione rispetto alla controparte maschile.

Considerando che il rapporto evidenzia una pluralità di implicazioni negative connesse al mismatch dell’orario lavorativo sia di natura individuale/familiare, e non esclusivamente in termini di life-work balance ma anche di salute fisica e mentale, sia in termini di prestazioni professionali, ad esempio rispetto a produttività, performance e assenteismo, il dibattito rispetto a maggiori forme di flessibilità organizzativa e di orario di lavoro non può che essere di centrale importanza. Centralità rafforzata dalla considerazione che miglioramenti in termini di mismatch tra orario lavorativo preferito ed effettivo risulterebbero, tramite l’aumento della componente lavoro, in una crescita della fiscalità generale con conseguente beneficio per la collettività.

Ma come si pone l’Italia rispetto al work-life balance e soprattutto alla flessibilità oraria per le lavoratrici? La figura sottostante si basa sulla strategia, emblematica nel caso olandese che rappresenta un caso all'avanguardia, del modello "meno ore di lavoro più posti di lavoro". Ovviamente il part-time non rappresenta la principale determinante dell’occupazione femminile, ma da sempre ha rappresentato, non correttamente, uno strumento di conciliazione passiva per le donne, permettendo loro di rimanere nel mercato del lavoro facendosi carico, comunque, delle responsabilità di cura.  

La questione centrale mostrata dalla figura 1 è che il nostro paese, nonostante risulti in linea con la media europea in termini di ricorso al part-time, si caratterizza come fanalino di coda insieme alla Grecia, rispetto al tasso di occupazione femminile, con poco più della metà delle donne di 15-64 anni in condizione di non occupazione.

Figura 1. Tasso di occupazione femminile 15-64 anni e quota di part time femminile nei paesi della Ue27. Anno 2021 (%) 

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat (dati relativi alla media 2021)

Se una discreta diffusione del part-time non ha avuto effetti importanti in termini occupazionali, la figura successiva indica che un potenziale ampio margine di miglioramento lo si potrebbe ottenere in termini di flessibilità oraria. La figura 2 indica che se si esclude il blocco di paesi appartenenti all’est Europa emerge chiaramente una relazione tra la diffusione della flessibilità oraria tra le donne dipendenti e il tasso di occupazione femminile: al crescere del primo cresce il secondo. In Italia, come in Grecia e Romania, quasi il 90% delle dipendenti riporta che il proprio orario lavorativo è rigidamente determinato dal datore di lavoro (dati 2019).

Al contrario, questo aspetto riguarda meno del 40% in paesi come la Finlandia e la Svezia e meno del 60% in paesi come la Francia, la Germania e l’Olanda, paesi in cui il tasso di occupazione femminile è superiore al 60% se non al 70%. Anche in questo caso è doveroso includere nel ragionamento la ricchezza e la pluralità di servizi e prestazioni di welfare destinati alle famiglie e alla conciliazione presenti negli ultimi paesi citati.

Figura 2. Tasso di occupazione femminile 15-64 anni (2021) e quota di donne dipendenti il cui orario è rigidamente determinato dai datori di lavoro (2019) – (%)

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat, Labour force survey MAH 2019

Il punto è capire se modelli di organizzazione flessibile del lavoro e degli orari di lavoro, come l’introduzione della settimana corta, rappresentino o meno una potenziale soluzione rispetto alle questioni di conciliazione e occupazione femminile. Rispondere è difficile. E anche se le prime evidenze indicano un aumento della conciliazione e soddisfazione lavorativa senza incidere negativamente sui livelli di produttività, è necessario soffermarsi sulle dinamiche soggiacenti alla flessibilità degli orari di lavoro specialmente nel contesto italiano.

Utilizzando i dati del modulo ad hoc Work organisation and working time arrangements della EU labour Force Survey nella rilevazione del 2019, in una recente nota e nel Gender Policies Report, lnapp prende in esame proprio la diffusione di forme di flessibilità degli orari di lavoro in Italia e nel contesto europeo. 

I dati confermano che il mercato del lavoro italiano si caratterizza nel complesso per una situazione di maggiore rigidità, e che, sia nell’Unione europea che in Italia, le donne da un lato hanno sempre minori opportunità di flessibilità rispetto agli uomini ma che dall’altro sono meno coinvolte nella richiesta di riorganizzare orari e disponibilità oltre l’orario di lavoro (figura 3). Sia in Italia che nella media dei paesi dell’Unione europea, sembra proprio che a godere di maggiori margini di flessibilità siano i "soliti noti", ossia lavoratori con titolo di studio elevato, occupati in professioni qualificate, e, se dipendenti, inquadrati con contratto a tempo indeterminato. Ma mentre nel resto dell'Ue le differenze di genere tra loro tendo a ridursi significativamente, in Italia questo non si verifica.

Le lavoratrici italiane presentano sempre margini di flessibilità più ristretti rispetto ai colleghi, con caratteristiche analoghe. Ad esempio tra coloro che svolgono una professione specialistica, il 15,2% delle donne dichiara di poter adattare l’orario lavorativo alle proprie esigenze tenendo conto di alcune restrizioni, mentre tra gli uomini questa flessibilità riguarda il 22,8%.

Questo dato suggerisce che, pure all’interno dei contesti organizzativi che offrono maggiore flessibilità lavorativa, le donne potrebbero trovarsi a ricoprire posizioni caratterizzate da maggiore rigidità come conseguenza dell’effetto della segmentazione occupazionale cui esse sono esposte e che le caratterizza per una minore libertà nella gestione degli orari. Ovviamente, conoscendo le differenze in termini di settore economico, posizione professionale e professione che insistono tra lavoratrici e lavoratori, una piena comprensione dei divari di genere rispetto alla flessibilità lavorativa richiede necessariamente una lente più fine.

Figura 3. Indicatori di rigidità dell’orario di lavoro in Italia e nella media Ue27 per genere – Anno 2019 (%)

Fonte: nostra elaborazione su dati Eurostat, Labour force survey – AHM 2019

I dati indicano inoltre che se da un lato la maggior rigidità degli orari di ingresso e uscita dal lavoro in Italia è parzialmente compensata da una minor difficoltà di beneficiare di giorni di ferie e permesso con poco preavviso, dall’altro tale beneficio va maggiormente a vantaggio dei lavoratori uomini specialmente se appartenenti alla categoria dei lavoratori con alti titoli di studio, posizioni qualificate, contratti a tempo indeterminato.

Colpisce infatti che in Italia la quota di laureate che dichiarano avere difficoltà nel prendere permessi o giorni di ferie senza preavviso è superiore al dato medio sulla popolazione occupata.

A completamento del quadro è necessario considerare anche che gli uomini registrano quote di maggior intrusività del lavoro nella vita privata (esempio adattamento orari a richieste datore di lavoro; lavoro al di fuori dell’orario di ufficio, reperibilità). Ovviamente, questa disparità a sfavore degli uomini, oltre che dipendere dalle differenze nello status occupazionale e dalla composizione dell’occupazione nei diversi settori economici, può essere interpretata anche come maggiore disponibilità, o possibilità, degli uomini a investire nella sfera lavorativa, evidenziando un’ulteriore sfumatura delle differenze di genere che caratterizzano il nostro mercato del lavoro.

Inoltre, rispetto a questi ragionamenti, è sempre necessario considerare che quando si parla di differenze di genere rispetto al mercato del lavoro ci si riferisce a due unità differenti: da un lato i lavoratori, ben rappresentativi dell’universo maschile di riferimento; dall’altro le lavoratrici che rappresentano la “selezione positiva” dell’universo di riferimento, escludendo coloro che, anche in virtù di problemi di conciliazione, non accedono proprio al mercato del lavoro.

In sintesi, i dati disponibili ci restituiscono un quadro di maggiore rigidità dell’orario di lavoro nella situazione italiana, in cui soprattutto le donne, nonostante il maggiore coinvolgimento nel lavoro di cura, devono confrontarsi con un’organizzazione del lavoro scarsamente flessibile, mentre gli uomini si fanno più spesso carico delle intrusioni del lavoro nella vita privata.

Gli stravolgimenti intervenuti sull’organizzazione del lavoro conseguenti alla pandemia hanno probabilmente modificato in parte la situazione, grazie soprattutto alla diffusione su larga scala del lavoro da remoto, che ha visto un incremento notevole proprio nei gruppi di occupati che si caratterizzavano per maggiori rigidità oraria, in particolare le donne e i lavoratori dipendenti. Tuttavia, i dati della Labour Force Survey indicano che le quote di dipendenti coinvolti nel lavoro da remoto nel nostro paese (11,8% tra gli uomini e 16,4% tra le donne) continuano a essere inferiori a quelle della media europea (rispettivamente 20,5 e 23,4% nella media del 2021), con un divario in diminuzione soprattutto tra le donne.

Inoltre, alla luce di questi dati appare chiaro che il mercato del lavoro italiano abbia bisogno di una maggiore flessibilità rispetto agli orari lavorativi, e che quindi misure in tale direzione siano assolutamente necessarie. Al contempo è necessario che i disegni di tali misure tengano in considerazioni potenziali distorsioni derivanti dalle caratteristiche strutturali del mercato del lavoro relative sia ai determinati profili occupazionali potenzialmente beneficiari delle misure stesse, al fine di evitare il rischio di introdurre strumenti elitari, ma soprattutto a una reale funzione di supporto alla conciliazione che permetta di ridurre le marcate differenze di genere e introduca strumenti di flessibilità non penalizzanti sul piano professionale.

E non basta. Serve anche fare un passo indietro e osservare la questione in esame con un’ottica più ampia: perché forme di lavoro con orari di lavoro flessibile possano diventare realtà concrete è necessario un tessuto produttivo e organizzativo che ne possa supportare l’implementazione. Come mostra una recente ricerca Inapp, flessibilità organizzativa e qualità del lavoro vanno di pari passo e si coniugano con effetti positivi in termini di performance imprenditoriali in un cluster ridotto di realtà produttive (circa 8%), principalmente insistenti nel settore degli altri servizi e delle organizzazioni di medie-grandi dimensioni. Lo spaccato del sistema produttivo italiano si caratterizza per un’elevata presenza di microimprese (circa il 60%) e una forte concentrazione nei settori dell'industria delle costruzioni, del commercio e del turismo (poco meno di due terzi del totale), entrambi aspetti che possono rappresentare una barriera rispetto alla diffusione della flessibilità degli orari lavorativi.