Linguaggi

Una serie di contributi e interviste a esperte per riflettere su come televisioni e giornali raccontano la violenza maschile sulle donne, rintracciare miti e stereotipi ricorrenti e individuare buone pratiche di narrazione. Il nostro dossier sulla violenza nei media

Cambiare le narrazioni
per cambiare il mondo

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Foto: Unsplash/ Mika

Raccontare la violenza di genere non è semplice né scontato. Le parole che si scelgono per descrivere le storie e ricostruire i fatti non sono neutre; al contrario, ogni narrazione può contestare o confermare luoghi comuni e stereotipi. Abbiamo deciso così di raccogliere una serie di contributi in un dossier sul tema, con l'obiettivo di analizzare come i media italiani parlano di violenza di genere, come raccontano uno stupro o un femminicidio, quali errori reiterano in articoli e servizi.

Per comprendere un fenomeno è utile partire dall’inizio. Per questo motivo abbiamo deciso di tornare indietro, fino al 1966, quando a Trapani si tenne il processo per il rapimento e lo stupro di Franca Viola, la prima siciliana a rifiutare il matrimonio riparatore. È il primo stupro a diventare anche un caso giornalistico clamoroso, in un tempo in cui i concetti chiave degli studi di genere ancora non esistono, perciò ci siamo chieste come è stato raccontato sui giornali: quali frame hanno orientato la narrazione, quali bias hanno accompagnato la cronaca della violenza sessuale fin da quel caso storico.

Abbiamo poi ripercorso i cambiamenti avvenuti a partire dagli anni Settanta con Marina Cosi, giornalista con un passato da attivista e ora vicepresidente di GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome). I movimenti neofemministi hanno rappresentato un importante punto di svolta nei rapporti tra i sessi e nella loro narrazione, ma le battaglie non sono finite, ci ha raccontato Cosi. Resiste, infatti, un uso sessista della lingua italiana, che emerge in modo chiaro quando si tratta di informare su un caso di violenza di genere.

Ne abbiamo parlato con Giulia Siviero, giornalista che si occupa di questioni di genere per Il Post e Internazionale, cercando di fare il punto sugli errori più frequenti nella copertura mediatica della violenza maschile sulle donne. La lista è piuttosto lunga: deresponsabilizzazione dell’uomo, colpevolizzazione della donna, utilizzo di termini come “tragedia” e “raptus”, che non riconoscono la dimensione strutturale della violenza, e altro ancora.

Un cambiamento è ormai richiesto, soprattutto dal basso, dai movimenti intersezionali e dai molti utenti che si mobilitano sul web contro questo tipo di racconto, ma tanto resta ancora da fare. In particolare, le donne subiscono ancora una rappresentazione che si basa su un repertorio di figure cristallizzate, non solo nel racconto scritto ma anche nell’iconografia.

Cristina Gamberi, docente all’Università di Bologna, ha analizzato le immagini che dovrebbero dare forma alla violenza contro le donne, trovando alcuni aspetti ricorrenti: l’inquadratura dall’alto, cioè dal punto di vista dell’aggressore, la tendenza all’erotizzazione del corpo femminile e la vulnerabilità della donna, ritratta come vittima passiva. I giornali cercano la “vittima perfetta”, una donna giovane che urla e tenta di difendersi con tutte le sue forze, e nella loro ricerca finiscono per dividere le donne in “vittime per bene” e “vittime per male”, giudicandole sulla base di elementi non pertinenti, come la loro vita privata e sessuale.

Come intervenire su questo processo per modificarlo in meglio? Preso atto dei molti punti deboli della narrazione mediale della violenza di genere, abbiamo cercato di rintracciare delle best practice che consentano di raccontare la storia in un altro modo. Si tratta di cambiare prospettiva e restituire dignità alle donne che hanno vissuto la violenza, evitando di inquisirle per le loro frequentazioni e per l'abbigliamento che hanno scelto, o di definirle in funzione dell’aggressore, nella consapevolezza che la parità passa anche e soprattutto attraverso le parole.

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