Magistrate in alta quota.
L'Anm volta pagina
L'Associazione nazionale magistrati introduce le quote di genere. Liste perfettamente paritarie, e garanzia di un minimo del 30% di elette negli organismi rappresentativi. Perché la femminilizzazione del diritto non si fermi alla base della piramide
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Lo scorso 22 ottobre l’assemblea generale dell’Associazione nazionale magistrati, organo di rappresentanza sindacale dei magistrati italiani, ha approvato una riforma epocale che favorisce la rappresentanza femminile all’interno dell’organismo associativo: lo Statuto dell’Anm è stato infatti modificato, nella parte relativa alle elezioni del comitato direttivo centrale (una sorta di “parlamentino” dell’associazione), nel senso di prevedere non soltanto che ciascuna lista di candidati (normalmente espressione delle c.d. “correnti”) dovrà garantire la presenza paritaria di genere, ossia il 50% per ciascun genere (le "quote di lista"), ma anche che, nella distribuzione dei seggi disponibili in proporzione dei voti riportati da ciascuna lista, sia comunque garantita l’elezione di una quota pari almeno al 30% per il genere meno rappresentato ("quote di risultato").
Un intervento, questo, che nasce da una meritoria iniziativa della Commissione pari opportunità dell’Anm e che intende rimuovere gli ostacoli alla piena eguaglianza di genere nella rappresentatività della categoria.
Le donne magistrato sono infatti pubblici dipendenti che risentono in modo peculiare delle carenze della politica della famiglia, ed è oggettivamente riscontrabile che ciò le porta a scelte considerate maggiormente compatibili con carichi familiari i quali ancora oggi gravano soprattutto su di loro: vale a dire che esse si candidano meno spesso rispetto ai colleghi maschi per posti di responsabilità, dunque sia per uffici direttivi, sia per le cariche sindacali, e che scelgono con maggiore difficoltà i posti nelle procure, ancora oggi considerate “roba da uomini”.
Le tabelle qui sotto, partendo dalla considerazione che le donne costituiscono poco meno del 50% della magistratura italiana, offrono qualche dato alla riflessione su questo tema:
VERTICI DIRETTIVI | RAPPRESENTANZA FEMMINILE |
Presidenti di corti d’appello | 10% (3 su 29) |
Incarichi direttivi (Presidenti di tribunale, capi di procure e simili, compresi i precedenti) | 13% |
Componenti del CSM | 8% (2 su 24) |
VERTICI ASSOCIATIVI (Sindacali) | RAPPRESENTANZA FEMMINILE |
Membri della giunta esecutiva centrale | 20% (2 su 10) |
Membri del comitato direttivo centrale | 15% (6 su 40) |
La discussione della proposta sia sulle mailing list dei magistrati, sia nel dibattito assembleare ha condotto ad esiti sorprendenti per la profondità di riflessione e per l’entusiasmo con il quale colleghi e colleghe magistrato hanno aderito all’uno o all’altro schieramento.
Con molta forza evocativa e dignità di genere, alcune magistrate hanno ad esempio dichiarato che il giudice non ha sesso, non ha razza, non ha idee politiche e di un presidente uomo non si sottolinea mai che è un uomo; e che le donne introdotte “a forza” negli organismi associativi di vertice, oltre a non essere necessariamente adeguate all’incarico, finirebbero per non far sentire la propria voce e per determinare la concentrazione del potere effettivo nelle mani di un numero ancora più esiguo di colleghi maschi. È un dato di fatto, in effetti, che in alcune realtà locali le donne prevalgono nel candidarsi proprio a quegli incarichi che non comportano gestione di potere effettivo ma un concreto “mettersi a disposizione” per il bene comune, come gli incarichi nel campo della formazione.
Chi non si appassiona alle quote chiede piuttosto maggiore attenzione alla “differenza femminile” nel quotidiano, dove avvocati e colleghi non risparmiano critiche più o meno velate a chi cerca di conciliare il proprio lavoro con gli impegni familiari senza sacrificare sempre i secondi al primo. Chiede insomma che la rimozione degli ostacoli alla presenza femminile ai vertici non sia imposta dall’alto bensì promossa dal basso, facendo evolvere la mentalità dei colleghi, favorendo una maggiore consapevolezza nelle colleghe dei loro diritti di lavoratrici.
Chi, invece, è favorevole all’introduzione delle quote sottolinea un dato di fatto ineludibile: le donne ai vertici della magistratura sono, come si è visto, drammaticamente sottorappresentate: questo dato non cambierà se non per mezzo di interventi positivi di riequilibrio delle forze in campo. Uno studio del Cnr (riassunto su questo sito nell'articolo "Dreaming parità: questione di secoli") ha evidenziato che, senza l’introduzione di quote di genere, la parità ai vertici della magistratura (presidenze di grandi tribunali e corti di appello, dirigenza di grandi procure) si raggiungerà soltanto nel 2601. Tali interventi non possono dunque consistere nella mera incentivazione delle candidature femminili, proprio come una crisi occupazionale non si risolve incoraggiando i disoccupati a spedire più curriculum.
Alcuni magistrati di entrambi i generi, poi, avevano dichiarato anche in assemblea di non gradire l'eventualità, accanto alle quote di lista, delle quote di risultato, che potevano condurre ad eleggere magistrate che avevano preso meno voti dei loro colleghi uomini solo in quanto donne, in tal modo “forzando” il risultato elettorale e limitando il libero dispiegarsi delle scelte democratiche.
Chi scrive aderisce invece convintamente all’altro schieramento, quello che ritiene che le quote di risultato possano giustificarsi culturalmente, come culturale è il cambiamento che invoca chi invece le ritiene superflue od offensive: considerando cioè, come già fanno le più avanzate democrazie occidentali, come “bene in sé” nell’interesse della collettività la partecipazione femminile ai processi decisori e gestorii, in quanto si ritiene che della peculiare “visione femminile”, finora esclusa di fatto per effetto dei noti condizionamenti culturali e sociali, possano derivare benefici alla vita sociale, politica, culturale del paese.
Ma tale visione femminile del diritto e dei diritti, che si sta affermando di fatto nelle aule di tribunale, non potrà affermarsi nei luoghi ove si decide e si gestisce proprio l’organizzazione di quegli stessi uffici se non si ricorre a un sistema di quote di genere. Infine, la lamentata “ferita” al principio di rappresentatività costituita dalle quote di risultato è più che bilanciata dall’obiettivo di garantire ad ognuno e ad ognuna il diritto egualitario all’elettorato passivo e alla rappresentanza politica, non sufficientemente (o meglio, solo formalmente) tutelato dalle quote di lista.
Si tratta di un incentivo a ripensare tutte le caratteristiche culturalmente stabilizzate del potere costituito in magistratura oggi, composto in massima parte da uomini ambiziosi, sicuri di sé, per i quali è possibile limitare il tempo da dedicare alla vita privata in favore di quella pubblica, avvezzi a platee, imbonimenti, accordi, schieramenti e strategie tipicamente belliche e dunque tipicamente maschili.
Fermo restando, naturalmente, che molto altro deve cambiare sulla strada dell’effettiva parità di genere in magistratura, ma con questa vittoria in assemblea si è trattato, una volta tanto, non di considerare la diversità femminile come una peculiarità da gestire nell’organizzazione del lavoro dei magistrati (con congedi, flessibilità ecc.), ma di consentirle di diventare protagonista decisore, elaboratore e modificatore, ai massimi livelli, della realtà della giustizia italiana.