Politiche

Conciliare tempi di vita e tempi di lavoro non è solo una questione privata, ha a che fare con le politiche del lavoro e con le scelte delle imprese. Cosa dicono i dati Inapp su differenze di genere e genitorialità

Non solo una
questione privata

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Foto: Unsplash/ Alex Bocharov

Nel terzo trimestre 2017 l’Istat ha registrato il record storico per l’occupazione femminile, con un tasso di occupazione delle donne che si attesta al 48,9%. Ma il dato è ancora fra i più bassi in Europa ed è stato, fra l’altro, propriamente accostato su queste pagine all’allarmante aumento in Italia delle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri. A ottobre l’Ocse ha diffuso il suo rapporto The Pursuit Gender Equality e l’Eige ha pubblicato il rapporto sul Gender Equality Index 2017. Entrambi i documenti evidenziano come l’Italia continui a caratterizzarsi per la bassa occupazione femminile e i marcati divari di genere nella distribuzione tra lavoro retribuito e lavoro domestico.

Il raggiungimento di un equilibrio fra vita privata e vita lavorativa rimane tuttavia un elemento essenziale per chi ha un’occupazione, soprattutto se si è genitori. Un recente studio dell’Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp) indaga proprio i livelli di conciliazione tra vita professionale e vita privata delle persone occupate in età riproduttiva, considerando le differenze di genere e prestando particolare attenzione alle differenze dovute alla genitorialità. Verificare i differenti livelli di conciliazione degli occupati rispetto al genere e alla genitorialità e individuare i principali fattori che generano differenti livelli di conciliazione erano infatti gli obiettivi dello studio. C'è da chiedersi se le recenti proposte politiche siano in grado di rispondere alla complessità che dai dati emerge in merito ai fattori personali, familiari e professionali che incidono sul raggiungimento di adeguati livelli di work life balance[1].

Lo studio qui citato, che considera la percezione degli occupati di 25-54 anni, con e senza figli, rispetto al grado di conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, tenendo conto di molteplici ambiti[2], rileva un interessante effetto combinato fra genere e genitorialità che pone gli uomini con figli fra coloro che dichiarano maggiori difficoltà e, all’opposto, le donne con figli fra coloro che dichiarano maggiori livelli di conciliazione (Figura 1).

Figura 1 - Occupati di 25-54 anni per sesso, presenza di figli coabitanti e possibilità di conciliazione tra impegni lavorativi e vita privata, Anno 2015 (% di persone che dichiarano di riuscire a conciliare) 

Fonte: Elaborazioni Inapp su dati QDL 2015- Indagine lavoratori

Se l’informazione sui livelli di conciliazione è analizzata anche in base ad altre caratteristiche individuali (età, titolo di studio, ecc.) e al lavoro svolto (tipo di contratto, orario di lavoro, professione, ecc.) si osserva poi che le caratteristiche individuali generano poca variabilità, mentre la variabilità aumenta disaggregando i dati in base alle caratteristiche del lavoro (Figura 2). Ad esempio, sia per gli uomini che per le donne, la percentuale di chi dichiara di riuscire a conciliare scende drasticamente per chi svolge un’attività autonoma: 56,3% degli uomini e il 64,3% delle donne, ma con effetti opposti rispetto alla genitorialità; le donne autonome senza figli sono le meno concilianti, mentre fra gli uomini i livelli più bassi sono dichiarati da chi ha figli. L’utilizzo di un orario part-time favorisce elevati livelli di conciliazione per entrambi i generi, ma meno per chi è senza figli (in particolare per gli uomini). Lavorare nel settore pubblico rispetto al privato o nell’industria e nei servizi, rispetto agli altri settori di attività economica, favorisce la conciliazione per entrambi i generi.

Figura 2 - Occupati di 25-54 anni che dichiarano di riuscire a conciliare per sesso, presenza di figli coabitanti e caratteristiche del lavoro, Anno 2015 (%)

Fonte: Elaborazioni Inapp su dati QDL 2015- Indagine lavoratori

Un approfondimento, sviluppato al fine di misurare gli effetti netti (ossia a parità di altre condizioni) del genere e della presenza di figli sulla probabilità di conciliare, ha mostrato in primo luogo un effetto significativo della presenza di figli e un effetto non significativo del genere; in secondo luogo, un effetto significativo e negativo dell’essere bread winner sul livello di conciliazione, sia in presenza di figli che quando non si hanno figli.

L’analisi ha successivamente considerato i singoli ambiti di work life balance[2] prendendo ad esame anche i desiderata, ossia le attività nei confronti delle quali si vorrebbe avere più tempo a disposizione. Riguardo all’equilibrio dichiarato rispetto a singoli ambiti si evidenziano per entrambi i genitori elevati livelli di conciliazione nella cura dei figli (81% delle madri e 74% dei padri); allo stesso tempo, riguardo ai desiderata, al primo posto per madri e padri appare la cura dei figli, nonostante questo rappresenti anche il primo ambito su cui entrambi riescono a conciliare; inoltre il desiderio maschile (49,1%) supera quello femminile (38,5%) in coerenza con la maggior difficoltà da parte dei padri.

In sintesi si rileva uno scenario complesso e diversificato rispetto, non solo all’appartenenza di genere, ma soprattutto riguardo alla genitorialità, dove fattori di differente natura entrano in gioco. Tutto ciò enfatizza come il work life balance sia una questione collettiva, sociale, in stretta relazione con le condizioni di lavoro, con l’organizzazione aziendale e con la disponibilità di infrastrutture sociali, e non solo una questione privata, familiare.

Al riguardo, un ultimo dato su cui preme richiamare l’attenzione riguarda la domanda di lavoro. Il 49% dei datori di lavoro italiani ha, infatti, dichiarato che la conciliazione fra vita privata e lavoro non riguarda l’azienda, ma dipende solo dalle scelte dei lavoratori[3].

Quest’ultimo dato fa riflettere su come sarà accolto il recente intervento sulla conciliazione proposto dal Governo. Lo scorso 12 settembre è stato, infatti, firmato il decreto interministeriale che riconosce sgravi contributivi alle imprese del settore privato che prevedono istituti di conciliazione tra vita professionale e privata, nei contratti aziendali, migliorativi rispetto a quanto già previsto dai contratti collettivi nazionali o dalle disposizioni vigenti[4]. Il decreto prevede importanti risorse finanziarie (54.600.000,00 di euro per l’anno 2018, 55.200.000,00 erano stati quelli per il 2017) in sgravi contributivi da riconoscere alle imprese con contratti collettivi aziendali “concilianti”. Le misure per accedere agli sgravi devono essere minimo due tra quelle indicate nel decreto, di cui almeno una rientrante o nell’area genitorialità o nell’area flessibilità organizzativa (Tabella 1) e devono coinvolgere un numero di dipendenti pari almeno al 70% della media di lavoratori occupati dal datore di lavoro nell’anno precedente.  

Tab. 1 – Misure di conciliazione individuate nel Decreto interministeriale del 12 settembre

Area intervento genitorialità

 

•  Estensione del congedo di paternità, con previsione della relativa indennità

•  Estensione del congedo parentale, in termini temporali e/o integrazione della relativa indennità

•  Previsione di nidi d’infanzia / Asili nido / Spazi ludico-ricreativi aziendali o interaziendali

•  Percorsi formativi (e-learning / coaching) per favorire il rientro dal congedo di maternità

•  Buoni per l’acquisto di servizi di baby sitting

Area intervento flessibilità organizzativa

 

•  Lavoro agile

•  Flessibilità oraria in entrata e uscita

•  Part-time

•  Banca ore

•  Cessione solidale dei permessi con integrazione da parte dell’impresa dei permessi ceduti

Area intervento Welfare aziendale

 

•  Convenzioni per l’erogazione di servizi time saving

•  Convenzioni con strutture per servizi di cura

•  Buoni per l’acquisto di servizi di cura 


Le misure proposte paiono andare incontro alle esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici, anche se sono già state ipotizzate le concrete
difficoltà tecniche che il decreto potrebbe incontrare. Aggiungiamo le resistenze culturali che la novità potrebbe incontrare da parte delle imprese e in parte anche dal legislatore, soprattutto nel considerare il work life balance come una questione privata e riferita principalmente all’universo femminile. Al riguardo, se il decreto qui citato incoraggia le aziende a estendere il congedo di paternità, bisogna ricordare che su quest’ultimo aspetto il nostro Paese ha ancora una lunga strada da percorrere[5]. Nel frattempo, gli ultimi dati forniti dall’Inps mostrano che nel 2016 l’utilizzo del congedo di paternità ha registrato un incremento del 27,4%.  Vedremo, nel 2018, come le aziende accoglieranno il decreto conciliazione da poco varato. 

Note

[1] Ci riferiamo in particolare al decreto interministeriale di settembre 2017, il cosiddetto "decreto conciliazione".

[3] Impegni domestici; cura dei figli; cura di persone anziane; attività sportive/culturali e di divertimento; volontariato/attività politica o sindacale; altro lavoro; studio/aggiornamento/formazione; cura di sé; riposo; incontrare amici

[4] Tale decreto ha visto la luce dopo oltre due anni, in attuazione in via sperimentale di una misura che era prevista dal D. LGS. 80/2015, emanato in attuazione della Legge Delega sul Lavoro, L. 183/2014, il cosiddetto Jobs Act.

[5] Il congedo di paternità è stato introdotto, in via sperimentale, solo nel 2012 con un simbolico giorno di congedo obbligatorio retribuito e dIl congedo di paternità è stato introdotto, in via sperimentale, solo nel 2012 con un simbolico giorno di congedo obbligatorio retribuito e due giorni supplementari retribuiti, ma attingendo dall’astensione di maternità obbligatoria della madre. La Legge di Stabilità per il 2016 ha esteso il congedo a 4 giorni (2 obbligatori e 2 facoltativi), nel 2017 i 2 giorni di congedo obbligatori sono rimasti, ma il diritto a usufruire degli ulteriori 2 giorni di congedo facoltativo non è stato prorogato, con l’impegno per il 2018 di portare a 5 i giorni di congedo di paternità (4 obbligatori 1 facoltativo). La Legge di bilancio 2017 ha introdotto un lieve miglioramento per il 2018 portando a 4 giorni il congedo di paternità.