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Gli effetti della crisi a un anno dall'entrata in vigore del Jobs Act. Uno sguardo di genere sul mercato del lavoro a partire dagli ultimi dati disponibili

Mai così vicini. Uomini e donne
a un anno dal Jobs Act

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Foto: Flickr/Parker Knight

Gli ultimi dati diffusi dall’Istat sull’offerta di lavoro evidenziano il proseguimento della fase di crescita, seppur moderata, del lavoro dipendente. In particolare i dati provenienti dall’indagine Istat sulle forze lavoro, hanno rilevato nel periodo maggio-luglio 2016 una variazione congiunturale positiva dell’occupazione dipendente (+0,7%, pari a +122mila), che ha coinvolto sia i lavoratori permanenti (+0,3%, pari a +49mila) sia quelli a termine (+3,1%, pari a +73mila). Su base annua – comparando i dati di luglio 2016 con quelli dell’anno precedente - i dipendenti sono cresciuti dell’1,7%(+285mila).In molti plaudono agli effetti del Jobs Act, entrato in vigore circa un anno fa. Le analisi preliminari condotte nei primi mesi del 2016 sembrano, tuttavia, evidenziare che l’attivazione di nuovi contratti da parte delle imprese è stata favorita prevalentemente dall’incentivo economico dello sgravio triennale[1], e meno da quello normativo del contratto a tutele crescenti. Ma è ancora presto per valutare gli effetti della complessa riforma del lavoro, sempre che si voglia percorre l’ipotesi che il diritto del lavoro crei occupazione. Al momento, può essere invece interessante tentare un “esercizio di stile” osservando con la lente del genere alcuni aspetti della riforma proposta, nonché l’eredità, il terreno, su cui quest’ultima dovrà impiantarsi. 

Uomini, donne e lavoro atipico

La lunga fase recessiva ha portato a un maggiore utilizzo delle forme di lavoro atipiche, accentuando la tendenza delle imprese a servirsi del lavoro non standard in modo da ridurre i rischi legati alle fluttuazioni dei mercati e per i lavoratori atipici è aumentata sia la probabilità di rimanere nella condizione di instabilità che di non riuscire a vedere trasformato il proprio contratto in un contratto a tempo indeterminato. 

L’incidenza del lavoro a termine sul totale del lavoro dipendente in Italia è sostanzialmente in linea con quello della media dell’Unione Europea (fig. 1). Ma se per le lavoratrici dipendenti italiane la quota del lavoro a termine è ormai da anni in linea con quanto registrato a livello europeo, è il trend maschile a presentare il dato di rilievo. Nell’ultimo decennio, si è assistito a una rilevante crescita della quota del lavoro a termine maschile, che ha quasi azzerato il differenziale di genere. Tali tendenze sono verosimilmente ascrivibili agli effetti della crisi economica, che ha colpito maggiormente settori a prevalente vocazione maschile. Tali tendenze sono verosimilmente ascrivibili agli effetti della crisi economica, che ha colpito maggiormente settori a prevalente vocazione maschile. Se lo sguardo si focalizza all’ultimo biennio, si rileva comunque e per entrambi i sessi, un aumento dell’utilizzo di forme di lavoro temporanee. 

Fig. 1 Dipendenti temporanei sul totale dei dipendenti per sesso, Italia ed EU-28 – Anni 2006-2015

 

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Eurostat

I recenti dati sull’occupazione diffusi dall’Inps e riferiti alle attivazioni e trasformazioni di rapporti di lavoro nel periodo successivo all’entrata in vigore del Jobs Act, mostrano che il sistema produttivo italiano ha adottato il contratto a tutele crescenti sia per avviare nuovi rapporti di lavoro che per trasformare i vecchi rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato. Sotto il profilo di genere, nel 2015, il 38% dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato ha riguardato la componente femminile, ma la quota sale al 40% se si considerano solo i contratti che hanno beneficiato dello sgravio triennale. 

Se è vero, inoltre, che complessivamente il Jobs Act ha riscritto la disciplina di molti contratti di lavoro (collaborazione a progetto, somministrazione, lavoro a chiamata, lavoro accessorio, apprendistato, part-time) è altresì documentato che per questi rapporti di lavoro ha lasciato aperte molte questioni, in particolare molti si interrogano, oltre che sulla valenza giuridica dei provvedimenti, sulla loro effettiva traduzione pratica alla luce, soprattutto, dei numerosi vincoli contrattuali e procedurali, nonché delle complesse causali di utilizzo previste. Inoltre il 2015 è stato caratterizzato anche dall’esplosione del lavoro accessorio, i cosiddetti voucher, utilizzati probabilmente in modo improprio, tanto da indurre il governo a un inasprimento dei controlli sul loro corretto utilizzo attraverso la tracciabilità[2]. Sarà, quindi, possibile valutare solo nei prossimi anni se l’obiettivo del legislatore di incentivare il contratto a tempo indeterminato come forma prevalente di lavoro, sia stato raggiunto o meno e se l’adozione di questa “nuova” forma di lavoro interesserà in pari misura uomini e donne .

Il Part-time: non solo femminile

Durante la crisi le strategie difensive messe in atto dalle imprese sono state soprattutto di labour hoarding e cioè di conservazione dei livelli occupazionali, piuttosto che di riduzione del personale, attraverso il ricorso alla cassa integrazione o al part-time, nella maggior parte dei casi a carattere involontario.

L’incidenza del part-time presenta in tutta l’Unione europea una forte connotazione di genere. Nel nostro Paese, nel 2015, circa 32 donne su 100 avevano un lavoro su basi orarie ridotte, rispetto a meno di 8 uomini su 100. Nel complesso dal 2008 al 2015 l’incremento del part-time ha interessato entrambi i sessi, ma ciò che più di ogni altro dato balza agli occhi, è il deciso aumento della componente di involontarietà del part-time, incremento che, soprattutto nel periodo di crisi più intenso, ha riguardato maggiormente la componente maschile dell’occupazione. Come è possibile evidenziare dalla figura 2, nel 2015 in Italia, l’81% degli uomini che svolgevano un lavoro con orario ridotto lo faceva in maniera involontaria, contro il 60% delle donne.

Fig. 2 Lavoratori part-time sul totale dei lavoratori, maschi e femmine, Italia ed EU-28 – Anni 2008-2015

 

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Eurostat

I dati dell’Inps diffusi sull’ultimo rapporto annuale mostrano, inoltre, che le attivazioni e le trasformazioni di rapporti di lavoro avvenuti a seguito dell’entrata in vigore del Jobs Act hanno riguardato in misura non residuale il lavoro a tempo parziale: su 10 assunti con contratti a tempo indeterminato 4 sono part-time. D’altro canto il Jobs Act è intervenuto significativamente sul part-time, riscrivendone l’intera disciplina e cercando un nuovo punto di equilibrio nel bilanciamento tra libertà del datore di lavoro nel variare durata e dislocazione oraria e volontarietà del lavoratore. Rispetto al passato, al datore di lavoro viene infatti concessa maggiore libertà nella determinazione dell’orario (la richiesta di svolgere lavoro supplementare ad esempio è ora del tutto svincolata dal consenso del lavoratore che può rifiutarsi solo se giustificato “da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale”). Allo stesso tempo al lavoratore è riconosciuto un diritto[3] a ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, seppure con alcuni limiti (la riduzione d'orario non deve essere superiore al 50%) per assolvere alle proprie esigenza di cura. Nello specifico è riconosciuta ai genitori la possibilità di usufruire del part-time(per una sola volta)[4], in alternativa al congedo parentale facoltativo nel corso dei primi 12 anni di vita del bambino; in questo caso, il part-time ha la stessa durata del congedo parentale, vale a dire dieci mesi complessivi per i due genitori, con un massimo di sei a testa.

Sarà quindi interessante osservare, in futuro, l’andamento dei nuovi contratti part-time e i differenti effetti sul genere, anche alla luce delle innovazioni in materia di conciliazione. 

Conciliazione e congedi: ancora un affare di donne

Il Jobs Act è ampiamente intervenuto sui congedi parentali. Fra gli aspetti positivi vi sono l’ampliamento della fascia d’età del bambino dagli 8 ai 12 anni, nonché la possibilità di utilizzare il congedo ad ore, in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero, e di ridurre i tempi di preavviso al datore di lavoro (ora bastano 5 giorni prima per quello normale e 2 per quello a ore, mentre prima servivano almeno 15 giorni).

I provvedimenti adottati, tuttavia, sono rivolti prevalentemente alle madri - il congedo di paternità è rimasto fermo a un giorno, estendibile a tre in caso di rinuncia da parte della madre - e non offrono adeguato supporto o incoraggiamento verso modelli più simmetrici di condivisione della cura, che stentano ancora a crescere nel nostro paese. Se l’Italia si caratterizza, a livello europeo, per una buona legislazione in termini di protezione della maternità al momento della nascita del figlio, quello su cui le famiglie italiane faticano di più, invece, è nel trovare supporto da parte dei servizi - soprattutto pubblici, ma anche privati - nella fase in cui è necessario rientrare al lavoro. La situazione fra l’altro è stata ulteriormente peggiorata dalla crisi economica e molte famiglie, a causa delle minori disponibilità, hanno dovuto rinunciare a un aiuto esterno, come recentemente testimoniato dal calo di colf e badanti registrato dall’Inps. Molte donne continuano a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio, mostrano una discrasia fra il numero di figli desiderati, 2 in media, e il numero medio dei figli concepiti e sono poco sostenute dai partner nella cura di parenti o amici da assistere. Riguardo all’investimento in congedi di paternità più estesi, in servizi per l’infanzia e di cura familiare più diffusi, in welfare pubblico o aziendale[5] più sviluppato ed efficiente, molto lavoro c'è ancora da fare.

Nei prossimi anni, al di là della dinamica dell’occupazione, sarà importante tenere conto anche della sua qualità, di chi coinvolgerà e con quali modalità. 

Note

[1] Emblematico al riguardo l’aumento delle assunzioni a dicembre 2015, ultimo mese per fruire del generoso esonero contributivo previsto dalla legge di Stabilità 2015. La legge di stabilità 2016 ha infatti ridotto gli incentivi in termini temporali, da tre anni a due; l’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro è sceso dal 100% al 40%; il limite massimo di esonero è stato ridotto su base annua da 8.060 euro a 3.250 euro.

[2] Chi intende utilizzare un voucher ha l’obbligo di inviare un sms o un’email almeno un’ora prima dell’utilizzo all’ispettorato del lavoro con nome e dati del lavoratore, oltre a luogo e durata della prestazione; sono previste inoltre pesanti pene pecuniarie (da 400 sino a 2400 euro) per gli inadempienti. Nel settore dell’agricoltura è stato previsto con un margine di preavviso più ampio (7 giorni).

[3] Il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla trasformazione entro quindici giorni dalla richiesta.

[4] Cfr. “ Il decreto legislativo 25 giugno 2015, n.81, ha previsto la possibilità per il lavoratore di chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale od entro i limiti del congedo ancora spettante, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d'orario non superiore al 50 per cento”  (fonte: Inps)

[5] Interessante al riguardo l’articolo 12 della recente Legge di stabilità 2016, che ha introdotto importanti novità con una specifica disciplina tributaria per la promozione del welfare aziendale anche attraverso l'incentivazione della contrattazione collettiva decentrata.

Riferimenti Bibliografici

Adapt, Jobs Act: l’operatività del “Codice dei contratti” alla luce della contrattazione collettiva, Working Paper ADAPT, 21 settembre 2015, n. 181

Canal T. (a cura di), Aa.Vv., L’Italia fra Jobs Act ed Europa 2020- Rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro, Isfol, I libri del Fondo Sociale Europeo, Del Gallo Editori, Spoleto (PG), 2015

Inps, XV Rapporto Annuale, luglio 2016, Roma

Isfol, Rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro, 2014

Istat, Occupati e disoccupati, 31 agosto 2016, Roma

Marocco M., "Part-time: ius variandi del datore di lavoro versus volontarietà del lavoratore" in Gualtieri V. (a cura di), La qualità del lavoro durante la crisi economica, Isfol, I libri del Fondo Sociale Europeo, 2016, Roma (in corso di pubblicazione).