Politiche

Nel quadro del Jobs Act è stata inserita una nuova legge sulle dimissioni in bianco che introduce metodi certi contro gli abusi, ma spazza via le garanzie che tutelavano da altre forme di coercizione. Una proposta per far fronte alle tante forme di scacco legate alle dimissioni volontarie.

Dimissioni in bianco, torna la legge
Ma altre tutele si perdono

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La riforma della disciplina delle dimissioni: prevenire e semplificare?

Il ddl 1409, all’esame del Senato nel quadro al Jobs Act, è il disegno di legge sulle modalità di risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie o risoluzione consensuale. Lo scopo del decreto è rendere impossibile la pratica delle “dimissioni in bianco”: quelle che di solito vengono fatte firmare alla lavoratrice o al lavoratore al momento della (e come condizione per) la stipula del contratto. Dimissioni firmate in bianco e poi esibite, aggiungendo la data, dal datore di lavoro nel momento in cui vuole “liberarsi” senza limiti, costi e fastidi, del vincolo contrattuale con il lavoratore. Il legislatore sceglie di prevenire: la lettera di dimissioni, o l’atto di risoluzione consensuale del contratto, va redatta, a pena di nullità, su un apposito modulo,  provvisto di un codice alfa-numerico progressivo che ne garantisca la data e la data non può essere anteriore di più di 15 giorni rispetto a quella delle dimissioni. 

È giusto tenere alta l’attenzione su questo decreto e sollecitarne una rapida approvazione, ma allo stesso tempo è utile avere uno sguardo critico e fare attenzione ad alcuni aspetti del progetto per scongiurare soluzioni precipitose più che rapide.

Il ddl, infatti, nell’apprezzabile intento di prevenire e semplificare, trascina nell’abrogazione anche norme che hanno come finalità una tutela più ampia e differenziata: perché le dimissioni in bianco non sono l’unico modo per estorcere o condizionare la decisione di dimettersi, decisione che inoltre potrebbe avvenire nella mancanza di consapevolezza dei propri diritti, delle conseguenze e delle alternative possibili.

Non vi è alcun dubbio, quindi, sul fatto che il ricatto della firma in bianco vada contrastato preventivamente. Introdurre il modulo a data certa in tutti i casi di dimissioni e risoluzioni consensuali è necessario, razionale, e coerente con una logica di semplificazione: corrisponde all’interesse di lavoratrici e lavoratori a non subire un’umiliazione essendo per di più gravati del difficile onere di dimostrarla; all’interesse dei datori di lavoro onesti a non subire pratiche di concorrenza sleale; all’interesse di tutti a diminuire il contenzioso.

Molti sono i dubbi, invece, sul fatto che tale intervento diventi l’occasione per fare piazza pulita di tutte le norme di garanzia esistenti in materia di dimissioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Proverò a esporre tali dubbi, partendo da ciò che esiste.

I precedenti e la disciplina vigente: cosa conservare e cosa no

La soluzione dei moduli con ordine progressivo e data certa riprende la legge n. 188 approvata nel 2007 e abrogata l’anno successivo nel quadro di una indiscriminata e strumentale operazione di “semplificazione”. C’è una grande differenza però tra la legge del 2007 e l’attuale proposta: la legge 188 si era ben guardata dal toccare una “storica” modalità di controllo delle dimissioni che consisteva nell’obbligo di “convalida” presso le Direzioni territoriali del lavoro. Una forma di garanzia aggiuntiva nelle situazioni considerate a maggiore rischio di abusi [1]: per le lavoratrici in occasione del matrimonio e di maternità, per i lavoratori, dal 2001, in caso di fruizione del congedo di paternità. In entrambe le circostanze, l’obbligo di convalida, corrispondendo a periodi in cui era vietato licenziare, assumeva una funzione prevalentemente antielusiva nei confronti di pressioni del datore di lavoro (anche nella forma delle dimissioni in bianco o della pretesa della “clausola di nubilato”, ma non solo) volte ad aggirare il divieto inducendo la lavoratrice a dimettersi.

Dopo la legge 188 è la volta della 92 del 2012, la cosiddetta “riforma Fornero”, che interviene su questa materia in due direzioni:

 - rafforzando la tutela preesistente connessa alla maternità/paternità e imperniata sulla procedura di convalida

 - introducendo una nuova disciplina di controllo per tutti gli altri casi di dimissioni [2].

Il ddl in discussione in questi giorni abroga completamente la riforma Fornero [3], facendo venir meno entrambe le procedure, quella antica e rivisitata, e quella nuova.

La  convalida delle dimissioni dei lavoratori genitori: non solo dimissioni in bianco!

Per le dimissioni della lavoratrice madre e del lavoratore padre la legge 92 ha esteso l’obbligo di convalida fino al compimento del terzo anno di età del figlio. La convalida assume così una funzione più ampia di quella antidiscriminatoria e antielusiva del divieto di licenziamento, che resta fermo al primo anno: si accentua il suo ruolo promozionale della fruizione dei diritti di conciliazione dei tempi (non a caso i tre anni di vita del figlio coincidono con il periodo del congedo parentale indennizzato); e si allarga la garanzia al padre lavoratore in forma autonoma.

Le Direzioni territoriali del lavoro hanno consolidato una prassi per cui la lavoratrice (il lavoratore) è invitata a convalidare le dimissioni in un colloquio che prevede un ampio scambio di informazioni dai contenuti predeterminati. Chi si dimette riceve tutte le informazioni sui diritti che si mantengono e su quelli che si perdono, su congedi, permessi e riposi legati alla genitorialità, nonché sulla possibilità di rivolgersi alla Consigliera di parità. La conoscenza di queste informazioni permette alla lavoratrice di prendere una decisione libera cioè pienamente consapevole, oltre che corrispondente alla volontà. Allo stesso tempo, la persona che si sta licenziando è a sua volta invitata a fornire informazioni: sulla propria condizione genitoriale, sull’azienda e sul settore produttivo, sulle caratteristiche del proprio contratto di lavoro e, soprattutto, sui motivi della decisione assunta. Le informazioni fornite dalla lavoratrice, o dal lavoratore, da una parte si inseriscono in un processo molto semplice di istruttoria che porterà a convalidare o no le dimissioni, dall’altra vengono trasmesse per l’elaborazione statistica alla Consigliera di parità territorialmente competente e, a livello nazionale, al Ministero del lavoro che, su questa materia, è tenuto a pubblicare una relazione annuale.

È evidente la polifunzionalità di questa procedura di convalida. Per la lavoratrice madre (il lavoratore padre) si tratta del diritto a sospendere gli effetti di una decisione delicata e importante assunta in un periodo ad alta vulnerabilità, e a riformularla in campo neutro, lontano da condizionamenti, verificando le eventuali alternative e potendo coinvolgere una figura di garanzia. Per la collettività, i dati sulle convalide delle dimissioni dei lavoratori genitori, oltre a descrivere l’andamento del fenomeno, registrano lo stato di salute delle politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura: ogni rinuncia al posto di lavoro motivata con l’incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e l’assistenza al figlio, con l’assenza o il costo alto dei servizi, con l’indisponibilità di familiari di supporto, con orari troppo rigidi e/o mancata concessione del part-time (sono le motivazioni più frequentemente riferite, ma anche il dato sulle dimissioni per cambiamento di attività, in crescita nel 2013, può presentare una correlazione con le stesse esigenze) rappresenta una denuncia dell’inefficienza di tali politiche e fornisce indicazioni sui bisogni reali delle persone e sugli ambienti lavorativi più refrattari a offrire risposte organizzative adeguate.

Questa procedura di convalida merita il discredito che è implicito nella proposta della sua abrogazione? La risposta non è scontata né può essere sbrigativa: non basta dire che l’esiguo numero delle mancate convalide, 52 nel 2013, ne dimostra l’inutilità. Certamente il funzionamento della convalida nella prassi, dopo l’estensione operata dalla legge 92, meriterebbe una verifica: per vedere quanto corrisponda alle più ampie finalità implicite in quell’estensione; per valutare l’attendibilità dei dati così raccolti; per capire se non ci siano situazioni che sfuggono alla rilevazione statistica pur traendo beneficio dall’esistenza della procedura [4]. Una ragione generale di metodo consiglia prudenza: una procedura di garanzia, che copre uno spettro di situazioni e interessi più vasto rispetto alla fattispecie identificata con l’espressione “dimissioni in bianco” non si cancella se non sostituendola con una protezione equivalente e altrettanto estesa. La procedura avrebbe piuttosto bisogno di manutenzione: basterebbero linee guida adatte, per evitare l’affermarsi di prassi burocratiche sbrigative e/o il consolidarsi di difformità territoriali troppo marcate; per arricchire l’aspetto promozionale dei diritti di conciliazione anche attraverso una formazione specifica dei funzionari e un più intenso e stabile coinvolgimento delle Consigliere di parità; per migliorare la qualità della rilevazione dei dati, in particolare facendo in modo che resti sempre una traccia statistica dei “ripensamenti” e dando visibilità anche alle motivazioni delle “mancate convalide”.

Dunque, se con l’introduzione del modulo che garantisce la data delle dimissioni si previene la forma più subdola di ricatto occupazionale, non si capisce perché la speciale procedura di convalida delle dimissioni per i genitori lavoratori non debba (essere messa in grado di) continuare a svolgere le altre diverse funzioni che la caratterizzano, e che andrebbero piuttosto valorizzate.

Il regime generale in materia di dimissioni: salvare il diritto di revoca.

Per tutti i casi di dimissioni cui non si applica la procedura “speciale” legata alla genitorialità la legge 92 ha introdotto una nuova disciplina che generalizza il metodo della convalida. Ma l’estensione è più apparente che reale. Si tratta infatti di una convalida “leggera” e senza istruttoria, da svolgersi indifferentemente presso la Direzione territoriale del lavoro, o il centro per l’impiego, o in sede sindacale. Inoltre questa procedura, che consentirebbe al lavoratore almeno di manifestare la sua volontà davanti a un soggetto terzo, ha poche probabilità di essere davvero praticata: perché la legge permette al datore di lavoro di giocare comunque “in casa” proponendo al lavoratore, in alternativa alla convalida, di confermare le dimissioni sottoscrivendo la ricevuta di trasmissione telematica della cessazione del rapporto di lavoro: con quale “libertà” da condizionamenti è facile immaginare.

Un tassello di questa disciplina merita però attenzione. Si tratta del diritto di revocare le dimissioni: sette giorni di tempo, nei quali il lavoratore può convalidarle o contestarle come non autentiche, o anche solo revocarle, cioè ripensarci e “tornare indietro” senza dover necessariamente dimostrare di aver subito pressioni. Quella settimana realizza una tutela circoscritta nel tempo, ma ampia quanto a situazioni coperte: dalla volontà estorta (in qualsiasi forma), ad azioni di condizionamento/pressione al limite della indimostrabilità, fino alla decisione avventata e al conseguente ripensamento. E’ un “tempo di garanzia” che permette contatti esterni e qualche riflessione. Peccato che sia di fatto azzerato quando la modalità prescelta per la conferma delle dimissioni è la “sottoscrizione in calce”, che consente al datore di lavoro di bruciare i tempi facendo immediatamente sottoscrivere la ricevuta al lavoratore, “prima che ci ripensi”: una firma in più, una semplice formalità, che il lavoratore potrebbe certo posticipare di una settimana – ma nessuno controlla che sia effettivamente messo in grado di farlo – adempiuta la quale la decisione diventa irrevocabile.

Prima ancora che complicata, la disciplina, con le sue troppe opzioni, è intrinsecamente contraddittoria e può essere abbandonata senza rimpianti. Quasi per intero: perché il diritto di revocare le dimissioni, entro un breve limite temporale – a maggior ragione se il modulo con data certa può essere fornito dallo stesso datore di lavoro! – andrebbe invece, per le ragioni appena dette, salvato e reso effettivo.


Queste riflessioni traggono spunto da una indagine in corso sulle procedure di convalida delle dimissioni in alcune regioni italiane, nell’ambito di una ricerca sul ruolo dei servizi ispettivi nel controllo della legalità del lavoro, coordinata da Gisella De Simone (Un. di Genova). La ricerca è inserita nel più ampio progetto Legal_frame_workLavoro e legalità nella società dell’inclusione (PRIN 2010-2011), coordinatore nazionale Donata Gottardi. Qui una versione estesa e più approfondita dell'articolo tinti_su_ddl_dimissioni_.pdf


[1] L’obbligo di convalida risale al 1963 ed era stato successivamente ripreso nel 2006 per il matrimonio, nel 1971 per maternità: dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno del figlio vita del figlio, nel 2001 esteso anche ai papà che usufruiscono di congedo di paternità

[2] Ballestrero, La disciplina delle dimissioni: i mediocri frutti di una buona intenzione, www.ingenere.it, 10/07/2012.

[3] Dimenticando – verosimilmente una svista – di disporre alcunché sulla procedura di convalida delle dimissioni nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento per matrimonio, che resterebbe così, solitariamente, in  vigore.

[4] Mi riferisco ai casi di ripensamento sulla volontà di dimettersi che potrebbero portare al ritiro delle dimissioni e della richiesta di convalida senza tuttavia essere catalogati come “mancate convalide”