Dai grandi centri alle periferie, la mappatura dei tessuti urbani riparte dai quartieri per capire come le donne vivono gli spazi. Ne parliamo con Keti Lelo di Mapparoma ed Eleonora Gargiulo di Freeda
Tempo fa, in un'intervista, la sociologa urbana Francesca Zajczyk lanciava su inGenere un appello: istituire nelle amministrazioni locali la figura del gender city manager per progettare territori più inclusivi. Una figura che già esiste in città come Vienna e Stoccolma, all'avanguardia nel settore della pianificazione urbana. Adesso, mentre Torino si impegna a fare fare da apripista in Italia, nascono e si evolvono nuovi progetti e strumenti per ripensare le città tenendo conto dell’esperienza che le donne hanno degli spazi.
La tendenza sembra quella di ripartire dai quartieri, unità a più stretto contatto con le vite delle persone. È quello che prova a fare la piattaforma open source Mapparoma, che con l’aiuto di software statistici e di analisi territoriale (GIS) ha iniziato a mappare le zone urbanistiche che nella capitale rispecchiano con maggiore veridicità le variazioni territoriali. “Nella città queste zone corrispondono ai quartieri” ci spiega Keti Lelo, geografa e docente di economia urbana all'Università Roma Tre, tra i ricercatori che hanno dato vita al progetto.
Mapparoma fa parte di un più esteso gruppo di lavoro su Roma, Urban@it, a cui aderiscono tredici università italiane con l'ambizione di favorire la collaborazione tra il mondo della ricerca, le istituzioni, la produzione e la cittadinanza attiva attorno al tema delle politiche urbane. “Nel corso degli anni a Roma si è venuto a creare un forte squilibrio tra centro e periferia” ci racconta Lelo. “I quartieri più esterni sono fisicamente isolati, circondati da terreni agricoli, lontani dalle sedi istituzionali, dai servizi, e senza collegamenti con la rete di trasporto pubblico veloce. Il grande raccordo anulare rappresenta una vera e propria barriera fisica e sociale. I gruppi più deboli: giovani coppie, precari, immigrati, separati e divorziati, sono costretti a vivere in case relativamente abbordabili ma con pochi servizi in periferia, mentre le abitazioni più centrali diventano sempre più costose, e spesso indirizzate verso una crescente domanda turistica e di affitti di lusso”.
Queste dinamiche trovano ulteriore riscontro nell’analisi delle differenze di genere contenuta nell’ultima delle mappe che Lelo e i suoi colleghi – Salvatore Monni e Federico Tomassi, entrambi economisti – hanno diffuso basandosi sui dati dell’ultimo censimento disponibile, quello del 2011. “Le donne a Roma si laureano più degli uomini: 266mila donne laureate a fronte di 235mila uomini laureati. Ciò che più colpisce guardando la differenza di genere nei laureati, è che le periferie esterne, quelle più ‘rarefatte’ e al contempo più ‘giovani’ e disagiate, hanno una chiara prevalenza di laureate donne, mentre i laureati uomini prevalgono nei quartieri abitati dal ceto medio-alto” spiega Keti Lelo. “Nel mercato del lavoro invece prevalgono ovunque gli uomini, il cui tasso di occupazione è del 55% a fronte del 42% femminile, con una differenza di ben 13 punti percentuali e con differenziali nettamente più elevati nelle zone urbanistiche fuori dal grande raccordo anulare. Anche se il tasso di occupazione femminile deve essere letto con estrema attenzione, poiché non riguarda solo le laureate ma tutti i livelli di istruzione, colpisce molto il fatto che, la raggiunta parità in termini di istruzione, non si rispecchia in simili livelli di opportunità lavorative” commenta Keti Lelo.
Ma quello delle disuguaglianze socio-spaziali è un fenomeno in costante crescita in tutte le regioni metropolitane dei paesi sviluppati, e i ricercatori di Mapparoma ce lo confermano. “Il processo di globalizzazione nelle grandi città europee e italiane sta generando nuove geografie della dispersione delle attività terziarie e produttive, che sempre di più tendono a localizzarsi negli hinterland, in prossimità di grandi assi di collegamento tra i principali nodi delle regioni metropolitane” spiega Lelo. Dispersione che si accompagna a quella insediativa, con tutte le ricadute sull’ambiente e sui modelli di gestione del territorio che ne conseguono. Processi che, se non adeguatamente arginati da politiche territoriali mirate, contribuiscono ad accrescere le diseguaglianze.
“Le differenze di genere rappresentano, assieme all’istruzione e alla multiculturalità un tema cardine di Mapparoma. Ci piacerebbe proseguire il nostro lavoro lungo queste linee di indagine, dati statistici permettendo” conferma Lelo che anticipa: “tra i nostri progetti a breve termine c’è lo studio delle disuguaglianze nei comuni nell’hinterland romano per capire se anch’essi risultano coinvolti da dinamiche simili a quelle delle periferie romane. Ci piacerebbe poi confrontare Roma con le principali città metropolitane italiane, in particolare Milano e Napoli, dove sono disponibili dati statistici a livello sub-comunale per i capoluoghi”.
Dalla mappatura dei quartieri parte anche la piccola e innovativa start-up Freeda, feel free around che ha scelto le città di Torino, Bologna, Roma e Catania per testare un'app che sarà disponibile a fine 2017 e che si propone di migliorare la qualità della vita delle donne in città. L’app, in continuità con progetti affini come Waze e Movit, è attualmente disponibile in fase beta sia per iOS che per Android, e ha l’ambizione di contribuire alla creazione di una comunità di donne che credano nell’indipendenza e nella mobilità sicura, ci spiega Eleonora Gargiulo, psicologa, Ceo e Co-founder della start-up insieme alla designer Ilaria Zonda e ad Andrea Valenzano, informatico. Un contrappunto all’immagine così tanto veicolata da media e politici, e purtroppo non molto lontana dalle vite reali, della donna che a muoversi da sola in certe strade e a certe ore si sente insicura, si guarda le spalle, prende in mano il telefono per chiamare un conoscente o fa finta di parlare con qualcuno all'altro capo del ricevitore.
“L'obiettivo è di raggiungere le cento utenze per città, concentrandoci su comuni di almeno 300mila abitanti”. Al centro, i percorsi pedonali e un sistema di recensioni aperto ai feedback delle utenti, volto a monitorare la sicurezza dei quartieri nelle grandi città. Sicurezza che in questo caso viene definita e ridimensionata in base alla percezione delle utenti. “Non partiamo quindi da informazioni statistiche, come potrebbero essere i dati Istat, ma da quella che è l’esperienza delle donne, con l’intento di favorire la circolazione delle informazioni e delle storie” dice Eleonora. “Questo, per mostrare anche come alcune credenze si scontrino con l’esperienza. Ad esempio, stiamo vedendo come alcune zone di Torino che di solito vengono considerate di cattiva frequentazione in realtà sono vissute tranquillamente dalle donne che fanno parte della community sperimentale di Freeda” tranquillità sostenuta dal sapere dove andare e come muoversi per raggiungere determinati punti evitandone altri. L’idea, spiega Eleonora “era di farlo non solo attraverso la condivisione di una percezione, ma anche offrendo la possibilità di motivare perché un’utente si sente ‘poco sicura’ in una determinata zona, attraverso un commento – ad esempio perché l’illuminazione è scarsa, perché ho subito molestie, perché la strada è deserta, ecc.” In questo modo, diventa possibile ancorare l’esperienza delle persone a proposte e richieste che chiamano direttamente in causa la pianificazione territoriale e le politiche urbane.
Per selezionare le tester – al momento poco più di 100 – e iniziare a tessere la community, Freeda ha deciso di puntare su eventi e workshop dal vivo che nei primi mesi si sono tenuti soprattutto a Torino e Bologna. “Abbiamo deciso di partire da Torino e Bologna, non solo perché la prima è la città dove viviamo, e la seconda ospita il nostro acceleratore, il programma TIM WCAP, ma anche perché hanno un tessuto molto più pronto a recepire innovazioni come questa, rispetto a città come Milano o Roma, caotiche e orientate al business in senso stretto ma meno al business sociale. L'ambizione è comunque quella di muoverci sulle principali città italiane”.
Fondamentale in questo progetto è la condivisione delle storie, ci racconta Eleonora. “Lo abbiamo chiamato city story telling. In uno dei primi workshop abbiamo preso una mappa di Torino e abbiamo chiesto alle ragazze che partecipavano di raccontare qualcosa di fastidioso oppure di piacevole che era capitato loro in punti precisi della città. C’erano persone che conoscevano bene Torino, ma anche persone che ci vivevano da poco. In quell’occasione abbiamo capito il valore del raccontare storie e condividerle, non solo perché favorisce un passaggio di informazioni ma anche perché a volte permette di trovare sollievo rispetto a una serie di pressioni sociali che ancora le donne che si muovono da sole si trovano a subire, dai complimenti indesiderati a veri e propri inseguimenti”.
È da qui che nasce l’idea di raccogliere e mappare i profili storici delle donne più importanti per la vita delle città coinvolte, ma anche il Torino Freeda Mapping, primo evento di mappatura urbana dedicato al racconto che le donne fanno degli spazi urbani, che si svolgerà a Torino il 7 luglio. Un pomeriggio in cui si andrà in giro per la città a fare recensioni sulla sicurezza percepita dei luoghi, sui posti più belli, scattare foto e scoprire quali realtà animano i quartieri. “Per noi è stata anche una prova per capire come avrebbero reagito le istituzioni pubbliche e le associazioni del territorio" commenta Eleonora Gargiulo. "Abbiamo costruito partnership importanti come quella con la Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari, e collaborazioni con la Casa delle Donne Torino, la Casa Arcobaleno e Cottolengo Casa della Divina Provvidenza, e anche l'assessorato alle Pari Opportunità di Torino si è fatto avanti”.
Un test importante almeno quanto quello tecnologico: tornando all’assenza di un management specializzato nelle amministrazioni, sappiamo che queste risultano il più delle volte inadeguate o poco sensibili a progetti simili. E anche quando si dichiarano disponibili ad accoglierli e pubblicizzarli, troppo spesso li riducono a piccoli trofei da esporre in vetrina, o li scambiano per qualcos'altro. È successo a Roma con l’app Appia nata dall’intraprendenza di alcune dipendenti di Roma Capitale; un’idea ambiziosa, rimasta poi, nei fatti, niente più che un indirizzario.